A novembre 2025 l’export italiano verso i Paesi extra Ue ha mostrato segnali contrastanti: sul piano congiunturale le esportazioni risultano stazionarie, mentre su base annua il dato complessivo segna una flessione del 3,3% rispetto a novembre 2024. È un numero che, isolato, non basta a parlare di “crollo”, ma che diventa più eloquente se letto nella fase iniziata dopo l’estate, quando l’inasprimento del quadro tariffario e l’incertezza regolatoria hanno reso più fragile la domanda estera, Stati Uniti inclusi.
Il punto, per chi guarda all’impatto sulle imprese, non è soltanto la variazione mensile: è dove si concentra l’esposizione e come lo shock si trasmette lungo le catene di fornitura. In altre parole: i territori con maggiore quota di vendite dirette negli USA sono i primi a “sentire” la stretta; ma anche chi non esporta può essere colpito se lavora come fornitore di chi esporta.
È esattamente la distinzione tra esposizione diretta e indiretta messa nero su bianco dalla Banca d’Italia in un lavoro recente: ricostruendo i legami interaziendali (anche grazie ai dati di fatturazione elettronica), Bankitalia mostra che i dazi possono incidere non solo sulle aziende che vendono oltreoceano, ma anche su quelle inserite nelle filiere domestiche che alimentano l’export verso gli Stati Uniti. Tradotto: un distretto può “pagare” i dazi anche se non spedisce un container a New York.
Le regioni più esposte: Nord in testa, ma non è solo una questione di volumi
Per capire le aree più colpite serve una mappa regionale dell’export verso gli USA. Un approfondimento CNA dedicato ai dazi USA al 15% e alle esportazioni delle regioni italiane insiste proprio su questo: l’impatto non sarà uguale per tutti e dipenderà dalla dipendenza dal mercato americano (diretta e indiretta), dalla specializzazione produttiva e dalla capacità di “scaricare” sul prezzo finale l’aumento dei costi.
Nel perimetro dei territori più esposti, la Lombardia merita attenzione: gli Stati Uniti sono un mercato chiave per molte filiere regionali e, soprattutto, per l’ecosistema manifatturiero che ruota attorno a Milano e alle province industriali. Assolombarda ha stimato che i dazi possono mettere a rischio una quota rilevante di export nel breve termine e sottolinea come i settori sensibili non siano marginali: moda, arredo, bevande, oltre a comparti più tecnologici.
Poi ci sono Veneto ed Emilia-Romagna, dove la combinazione tra distretti meccanici, componentistica, moda e agroalimentare “premium” rende più delicata la gestione dei listini: se il dazio si somma a costi logistici e oscillazioni del cambio, una parte della domanda può spostarsi su concorrenti alternativi o rallentare gli ordini. Il tema è ancora più critico per le PMI: margini più stretti, minore potere contrattuale e meno risorse per riposizionarsi rapidamente su altri mercati, come evidenziato dall’analisi CNA.
I “punti caldi” fuori dai grandi hub: quando la subfornitura amplifica lo shock
Un errore frequente è pensare che soffrano solo le regioni “top exporter”. In realtà, i legami di filiera possono trasferire l’urto anche dove l’export diretto verso gli USA è più contenuto: vale per aree specializzate in lavorazioni intermedie, packaging, componenti e semilavorati. È il meccanismo che Bankitalia definisce esposizione indiretta: se il cliente finale taglia gli ordini per l’America, tutta la catena a monte rischia di rallentare.
Perché il -3,3% (e non “solo” il -3%) va preso sul serio
La flessione di novembre è un segnale anche perché arriva dopo mesi in cui i dati hanno oscillato molto, spesso per effetto di grandi commesse e di variazioni settoriali. Reuters, commentando il dato ISTAT, sottolinea infatti che a novembre l’export extra UE torna a flettere su base annua mentre l’import cala in modo marcato, ampliando l’avanzo commerciale: un quadro che può far apparire “solida” la fotografia macro, ma che non elimina la pressione sulle aziende esposte a mercati specifici.
Il rischio, per il 2026, è che lo shock tariffario diventi meno episodico e più strutturale: non un mese negativo, ma una normalizzazione su livelli più bassi di ordini e margini. Ed è qui che la geografia conta: dove la quota USA è alta, l’aggiustamento è più rapido e più doloroso; dove è bassa, può comunque arrivare “di riflesso” attraverso le filiere.