08 Febbraio 2023
L'Epifania abortita di Zelensky a Sanremo conferma che il Festival è una faccenda maledettamente politica, tutto il resto è contorno. O pretesto. Politica per dire dei rapporti di forza fra i poteri istituzionali e fra questi e quelli finanziari e legati allo show business nella temperie globalista, nella fase della grande trasformazione sociale con intenti di spennatura dei polli, i soliti, i poveri, dissimulata da presunzioni filosofiche e sociologiche. Zelensky non c'è ma a sottolineare il carattere istituzionale della baracconata si è scomodato niente meno che il nostro Mattarella, benedicente come alla Scala. Là, come qui, il presidente "di tutti gli italiani", ma qualcuno di più, può dire dal palco reale: questa è roba nostra, Sanremo è cosa nostra. Nostra di chi? Della sinistra che lo ha espresso e che, estromessa a furor di popolo dal potere diretto, governativo, non rinuncia a quello diffuso, gramsciano al crocevia tra industria e politica, di cui Sanremo è, parafrasando Frank Zappa, il ramo spettacolare.
Anche qui, per non farla troppo sporca, si è dovuta escogitare una scusa e la si è individuata nei 75 anni della Costituzione, ricorrenza pretestuosa per una causa pretestuosa. A fare da gran ciambellano il conduttore dittatore festivaliero Amadeus, detto Ama, naso d'acciaio in sorriso di velluto, a far da cerimoniere il giullare di corte Benigni, stesso impresario di Ama, il renziano Lucio Presta. Un affare di famiglia! Benigni si spertica nelle banalità cialtronesca che l'hanno reso ricco, quantum mutatum ab illo del wojtilaccio che per poco non faceva sospendere il Festival. Una vita fa. Adesso, tutta una sviolinata sulla Costituzione più bella del mondo, illustrata con l'entusiasmo pasticciato e stupido del militante, dell'amatore digiuno di un esamino di diritto costituzionale. Ma se chiara Ferragni in costume balneare che la rende simile a un insaccato può recitare una demenziale lettera a se stessa, in cui celebra se stessa, sotto gli occhi del capo dello stato Benigni può venirci a spiegare la magna charta con il sussunto: guai a fare le riforme, va tutto bene così com'è. Almeno finché non torneranno a comandare i nostri. Del resto, l'ex irriverente è specializzato in falsi anche clamorosi: se oggi rilegge la Costituzione da sinistra come piace al presidente benedicente, all'epoca del film “La vita è bella” faceva sventolare bandiere americane sui carrarmati liberatori che invece erano dell'Armata Russa. Ma che lo notiamo a fare? Stiamo parlando di uno che ci spiega come la nostra Magna Charta sia una patente di libertà assoluta e inviolabile mentre siamo reduci dalla più clamorosa violazione sistematica della stessa Carta negli ultimi tre anni a mezzo regime sanitario: anche allora la chiamavano libertà e continuavano a chiamarla libertà. Di venire rinchiusi, ricattati, puniti per colpe inesistenti, per crimini mai commessi.
Una cosa abbastanza sconcia, pensare che le trattative in alto loco vengano condotte a mezzo di impresari come Presta, per Mattarella, e giornalisti di carriera come Vespa per Zelensky. Ma va così. Sanremo è pura sovrastruttura, mezzo di produzione per la elite dominante. Anche affare, certo, e grosso affare ma pur sempre nell'interesse della Rai e dei suoi millanta manutengoli e dei partiti che la maneggiano, pur sempre una faccenda di politica politicante.
Essendo una questione politica, si spiegava naturalmente la bizzarria di uno che, a capo di un paese invaso, passa il suo tempo a saltellare da un evento spettacolare all'altro, quanto a dire da una mediocrità circense all'altra in tutto il mondo. Al Festival dei fluidi e dei pacifisti il macho Zelensky in maglietta militare veniva a reclamare altri soldi, altri cannoni e missili e carrarmati, altri armamenti con cui perpetuare una guerra che non si capisce più per conto di chi sia combattuta, se dal popolo per se stesso, dal popolo per il suo vanitoso capo o da Zelensky per se stesso sulla pelle del popolo. Una di quelle cose all'apparenza incomprensibili, manicomiali, che al Festival di Sanremo trovano una collocazione naturale, fisiologica. No Zelensky no festival, pareva inevitabile, segnato dal destino. Alle inevitabili perplessità i mammasantissima del servizio pubblico reagivano tra l'incredulo e lo stizzito, ma come, non lo volete 'o guaglione con la sua maglia verde oliva? I commentatori di servizio tutti a spiegarci che la sconfitta dell'invasore passava per Blanco e Rosa Chemical, o Sanremo o morte. Poi, lentamente, la cosa ha perso convinzione e infine si è ridotta alla solita pagliacciata all'italiana: niente grande capo, nemmeno in differita; in sostituzione, ha annunciato Amadeus nei panni del professor Guidobaldo Maria Ricciarelli, trasmetteremo un suo messaggio letto da me medesimo.
Peggio che peggio: compromesso umiliante per tutti, la Rai, Zelensky, Sanremo e il paese che, Benigni può girarsela come vuole resta inguaribilmente e inguardabilmente cialtrone. Tanto valeva lasciar perdere del tutto. Ma forse è il modo migliore per esercitare quella censura preventiva che a parole nessuno voleva.
I motivi, nessuno li ha spiegati e nessuno li ha capiti. Qualcuno ha fatto capire che era un azzardo? Che mettersi contro in modo tanto plateale uno che controlla i rubinetti del gas non era una buona idea? Qualcuno sa, sulla guerra, cose che non sappiamo? C'è stato un ripensamento al governo? Al PD? O, in modo più meschino, si tratta solo dell'ammutinamento di certo potentato in Rai che non tollera il potere crescente di Bruno Vespa, ufficiale di collegamento tra Roma e Kiev? Perché nella follia del tutto abbiamo dovuto registrare anche questo, un giornalista del servizio pubblico che può mediare, può combinare dove la Farnesina e le cancellerie non osano o non possono. Qui il bislacco si tinge di torbido, insomma si arriva al grottesco: può mai mancare dove c'è una faccenda dannatamente politica? E il Festival del museo delle cere un po' tetre e dei fluidificanti un po' ridicolo è tutto politico, del genere istituzionale; qui si fa, se non la storia, men che meno artistica, almeno la cronaca del potere. Un presidente per un presidente. Dal fattore Z al fattore M, per uno Zelensky che evapora, un Mattarella si materializza e ritrova la vecchia compagna di selfie Chiara Ferragni, ricordate, al gran premio di Monza. Proprio così, la imprenditrice digitale, che è una formula pretenziosa per non dire persuasore del nulla, la vorrebbero segretaria del PD e non è uno scherzo: tot follower tot tessere, teorizza qualcuno al Nazareno, l'unico posto, forse, dove una tale idiozia poteva prendere piede, ma vanno capiti, sono disperati. Del resto, dopo aver lanciato sardine e perorato terroristi, che gli rimane da perdere? Forse per Zelensky dovevano affidarsi direttamente a Chiara, compatibile anche per attitudine: tra influencer si intendono. In ogni modo non si scappa: a Sanremo le rose non si ringraziano più, si prendono a calci come atto di rivolta sociale nel nome della transizione green, del genderismo, del compagno Cospito, dell'autoaffermazione egolatrica che vorrebbe benedire il diavolo del neoliberismo televisivo nell'acqua santa del socialismo inclusivo. Se non è politica questa!
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