15 Giugno 2024
Kate, la principessa malata, torna a farsi vedere in pubblico e dice: sto meglio, ma non ancora bene. Già, un cancro non è affare che si possa estirpare come un dente, specie nella forma sconosciuta e insidiosa che assume di questi tempi postvaccinali. Ma è meglio non dirlo, non insinuarlo se no “gli algoritmi” ti censurano e ti cancellano dalla faccia della terra virtuale. Anche io nel mio piccolo potrei dire come la principessa malata: sto meglio ma non ancora a posto, non guarito. O almeno come mi dice chi mi incontra: “Ti vedo molto meglio, stai un fiore, un anno fa sì che facevi schifo”. Potevano dirmelo allora. Ma forse non volevano offendermi. Insomma starò meglio ma non me ne accorgo, i postumi di una chemio lunga e massiccia continuano, la pelle è squamosa, il bisogno di pisciare costante, la debolezza non dà tregua. Ma siccome mi sforzo di viaggiare, tutti mi dicono che sto meglio. Poi magari sarà così, ma una cosa è certa: tra essere malato e sentirsi malato il passo è brevissimo e una volta varcata la soglia non si torna più indietro. Non a 60 anni. Capisco i giovani per i quali magari un tumore è un incidente di percorso e se ne escono lo dimenticano, ma un quasi anziano come me tra controlli perenni e paure perenni è destinato a sentirsi, dunque ad essere, malato a vita, fosse solo per ipocondria.
Poi dopo un inverno in cui ho assorbito tutto restando sempre solo in posizione orizzontale, a lungo quasi neppure la forza di respirare e come uniche presenze una moglie che si è dannata e gli animali che nel loro affetto criptico sentono, capiscono. Giorni e giorni senza mettere il naso fuori, e le stagioni si rincorrevano, cambiavano. Ma nessuno è venuto a farmi visita, a parte una coppia di cugini che non vedevo da 30 anni e, appena saputo, si sono precipitati da Monza. Due volte, che Dio li tenga in cuore perché mi hanno portato la vita, la scommessa di vita che il male e la cura, l'incertezza e la solitudine bruciavano. Per questa mia solitudine ho ricevuto le giustificazioni più implausibili e a volte sconce: “Non volevo creare gelosie”, “soffrivo troppo per te”, “nutrivo risentimento perché non ti importa dei bambini palestinesi’. A uno con un cancro? Poi quelli che sono proprio spariti senza nemmeno l'incomodo di una frase di circostanza, una faccina animata. Ma anche questa è stata una scoperta: da malato diventi noioso e contagioso, diventi uno sfigato, induci pena e disagio, imbarazzo. Prima sentivo chi ci era passato e non ci credevo, adesso mi ci ritrovo in pieno. E dire che sono una figura più o meno nota e ho potuto contare sui messaggi di tanti lettori. Non posso pensare a chi non ha neppure questa consolazione differita ma diffusa.
Almeno da parte mia mi sono sottratto, ho intercettato altri guastati come me e sono rimasto loro accanto, non solo in quanto compagni di sventura. La cosa non sempre è stata capita, mi è capitato di sentirmi rimproverare, come se stessi cercando dei flirt o di mettermi in mostra; anche questa è stata una conferma del totale sbando attraversato dalla razza umana che di umano ha sempre meno, che vede lo sporco dove non c’è ma assai meno dove alligna, che arriva a vergognarsi di un moto di vicinanza o di empatia come di cose da deboli, inutili, non fruttifere nel tempo della “piena operatività acca 24” che ti fa correre senza ragionare e senza vergognarti. Già, se non sei pienamente operativo anche con una malattia grave non esisti, sei già morto: sapendolo, mi sono sforzato di restarlo in condizioni di stremo, ma non è stato facile e non lo è tuttora, a volte fatico a ritrovare le parole, a ricordarle; quante volte, dopo aver riletto un pezzo appena uscito, mi sono disperato per non averci visto in tempo troppi inciampi o colli di bottiglia. E mi facevo pena da solo nel mio sforzo, più patetico che eroico, di esserci comunque, di reagire come potevo, di non darla vinta al male, alle cure che mi rendevano problematico lo stesso gesto fisico dello scrivere, del battere i tasti di un computer, regolarmente sdraiato. Otto, nove mesi di articoli scritti di getto, come sempre, ma più ancora di letto.
Vorrei dire, se potessi, se le arrivasse mai il mio pensiero, alla principessa malata che la condivido: plebea o reale che sia, questa distruzione è democratica, non fa distinzione, chissà se davvero potremo ancora dire mi sento bene, mi sento che è passata. Personalmente lo escluderei e devo farmene una regione; meno riesco ad accettare che il mio destino sia cambiato non per fatalità naturale o per sconsiderate attitudini personali, ma per il delirio affarista di un potere votato al capitalismo anarcoide e criminale che ha totalmente rimosso Dio, come un calcolo molesto, una complicazione inutile lungo la marcia di bisonte verso il profitto senza limiti e senza scrupoli. Un capitalismo demente che, dopo aver saturato il mondo di produzioni e di consumi, si è trovato nella necessità di sfoltire, di alleggerirlo della buona a metà di “mangiatori inutili” come ci chiamano quelli della mangiatoia perenne, i Gates, i Soros, i Timmermans, gli Schwab, le Ursula in gran spolvero al G7, forse perché inutile non è. E così ha organizzato il pandemonio pandemico, il morbo mai chiarito, costruito in un laboratorio cinese a guida americana, sublime sintesi di autoritarismo paternalistico liberale e comunista. Prima il morbo, poi l’antimorbo, entrambi insidiosi, sfuggenti, sconosciuti perfino agli esperti, ai medici, ma il secondo più pericoloso del primo, il rimedio più letale del male. E hanno fatto pulizia diffusa, guadagnandoci sopra come sempre, secondo comandamento unico del capitalismo che ha il denaro per unico dio. Dite che la posta in gioco era più pesante, che c’era da tenere tutti chiusi, oppressi, a futura memoria, da utilizzare come cavie, che le democrazie liberali, implose in negative, hanno bisogno di ridefinire i suoi cittadini in plebe? Dite che la psicosi del morbo sconosciuto non deve mai passare, che la rilanciano coi pretesti più bugiardi, che adesso passano a curare i sani, ad ammalare i sani? Sicuro, lo dico anche io, lo scrivo ogni giorno, ma, alla fine di tutto, resta il profitto, resta il soldo come unico orizzonte definitivo, onnicomprensivo. Come diceva quell’impresario di pugilato che conosceva gli uomini: “Sapete? Non è mai per soldi; è sempre per soldi”.
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