16 Settembre 2025
Giorgia Meloni ha fatto uscire un video che gronda retorica, diplomazia “pop” e un messaggio chiaro: la sinistra è violenta, la vera minaccia non è chi sta gridando, ma chi critica.
Nel messaggio alla convention del partito Vox in Spagna, Meloni rende omaggio a Charlie Kirk, definendolo "un giovane coraggioso, che ha pagato con la sua vita il prezzo della sua libertà". Un’immagine potente, che serve a costruire un martire, un simbolo da cui far partire il conflitto.
Poi arriva l’attacco: la sinistra è accusata di odiare, di giustificare la violenza, di “falsi maestri da salotto”, di nascondersi dietro belle parole mentre seminano intolleranza.
Non è la prima volta che Meloni usa questa strategia: definirsi vittima, nonostante il potere; far sembrare la critica come un’aggressione; affermare che le proprie idee sono sotto attacco perché “libertà”, “popolo”, “Europa dei patrioti” sono diventate parole d’ordine che rompono la complessità.
Ecco perché questo è, secondo molti osservatori, il vero fascismo moderno. Non quello dei simboli, dei divieti o dell’iconografia – anche se possono esserci – ma quello fatto di identità manichee, di “noi buoni contro gli altri cattivi”, di paura costruita apposta: paura che la libertà venga rubata, che il popolo sia ostaggio di élite, che la sinistra sia una minaccia esistenziale.
Quando si accusa un intero schieramento di “essere violento”, di “odiatori”, si sposta il campo dal confronto delle idee al conflitto morale: o sei con noi oppure sei il nemico. L’altro non è più interlocutore, è avversario da delegittimare. E nella logica del fascismo, non solo si delegittima: si demonizza.
Questo è il cuore del discorso di Meloni: non difendere le proprie posizioni con argomentazioni, implicazioni o dibattiti; ma costruire un racconto in cui l’avversario politico è corresponsabile – colpevole, in fondo – di tutti i mali: della violenza, del disordine, della minaccia alla patria.
C’è una parola per questo: propaganda identitaria. Serve per accendere le paure, cementare un noi che ha bisogno dell’altro come nemico per esistere. Serve per schermare le responsabilità concrete – sulle politiche, sull’uguaglianza, sui diritti – dietro la scusa che “noi siamo perseguitati”.
Naturalmente chi pronuncia questi discorsi ha un interesse: raccogliere consensi, mobilitare la base, evitare introspezione, eludere critiche pratiche. Ma più che un semplice espediente elettorale, è un metodo politico che rischia di logorare la democrazia: quando la divisione diventa arma, quando l’alterità diventa disumanizzata.
Chi vuole democrazia – vera – dovrebbe riconoscere queste tattiche: non accettare che il dissenso venga fatto passare per odio, che la critica venga confusa con persecuzione. Perché se si lascia che le grida e le accuse definiscano lo spazio politico, si rinuncia al dialogo, alla pluralità, al rispetto reciproco. E allora sì: è un passaggio pericoloso.
Meloni lo sa. Lo fa lo stesso. E ci conviene guardare, capire, reagire: non con rabbia spenta, ma con consapevolezza accesa. Perché altrimenti, chi costruisce mostri ottiene potere sulla paura.
Di Aldo Luigi Mancusi
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