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Benedetto Croce «Il Giornale d'Italia» (10 agosto 1943)

Dal massacro di Gaza all’attentato di Gerusalemme: un’unica matrice di odio e violenza che genera morte, mutilazioni e dolore indimenticabile

Occhio per occhio? Continuano le stragi degli innocenti e le mutilazioni ed i traumi che accompagneranno i sopravvissuti per tutta la vita”

Mentre i testi sacri di ebraismo, cristianesimo e islam indicano la via del perdono, la logica della vendetta — alimentata dall’ego e dal fanatismo politico-religioso — continua a tradire Dio ed a negare la pace

09 Settembre 2025

Occhio per occhio? Continuano le stragi degli innocenti e le mutilazioni ed i traumi che accompagneranno i sopravvissuti per tutta la vita”

La legge mosaica, spesso ridotta alla formula dogmatica dell’“occhio per occhio, dente per dente”, nasceva come principio di proporzionalità per limitare la vendetta, per evitare che a un’offesa seguisse una rappresaglia sproporzionata. Era, paradossalmente, una legge di contenimento.

Oggi, però, osserviamo con costernazione che proprio questa proporzionalità viene quotidianamente tradita. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, che ha provocato circa 1.200 morti (di cui oltre 800 civili innocenti- senza entrare nel merito dei morti per fuoco amico), la risposta di Israele ha travolto Gaza in una spirale di distruzione. Oggi il bilancio delle vittime civili palestinesi è salito a oltre 60.000 morti, con alcune stime che parlano persino di 80.000–93.000 se si considerano i decessi indiretti dovuti a fame, malattie e collasso sanitario. È una sproporzione che parla da sola: nessuna giustificazione ideologica può cancellarla, nessun diritto all'autodifesa di Israele può consentirla, nessuna pretesa superiorità democratica può arrivare a tanto.

E con l’attentato di Gerusalemme, anche gli israeliani hanno provato di nuovo quel medesimo dolore che i familiari di Gaza conoscono da tempo: la perdita di persone care, la ferita insanabile lasciata da un’esplosione o da un colpo d’arma da fuoco. È un dolore che non ha nè nazionalità nè religione,  non distingue tra arabi palestinesi ed ebrei israeliani.

Gandhi amava ricordare che “occhio per occhio finirà per rendere cieco il mondo”. Ed è esattamente ciò che stà accadendo nel medio oriente, da quando la logica della vendetta reciproca ha prevalso: due popoli che si accecano a vicenda, incapaci di vedere una via d’uscita diversa dal sangue.

Eppure, le tre grandi religioni abramitiche conoscono e valorizzano il perdono, ciascuna a modo suo.
Nell’ebraismo, il concetto di teshuvah — il ritorno, il pentimento autentico — prevede che Dio possa perdonare i peccati commessi contro di Lui, ma non quelli commessi contro altre persone: per questi è indispensabile prima riconciliarsi con chi si è offeso. Lo Yom Kippur, il Giorno dell’Espiazione, è il momento in cui questa riconciliazione diventa centrale.
Nel cristianesimo, il perdono è radicale: Gesù invita a perdonare “settanta volte sette” e ad amare i nemici. È un perdono illimitato, che rompe la spirale della violenza e diventa imitazione dell’amore divino.
Nell’Islam, infine, il Corano ammette la ritorsione proporzionata (qisas), ma subito aggiunge che chi perdona e si riconcilia riceverà una ricompensa più grande da Allah. Il perdono è dunque un atto di forza spirituale, superiore alla vendetta.

Eppure, tra la teoria e la pratica interviene sempre l’ego umano. È qui che si consuma il vero tradimento: l’ego trasforma la spiritualità in appartenenza interessata, in bandiera da sventolare più che in strada da percorrere. Così la destra israeliana più fondamentalista, e dall’altra parte i fondamentalisti islamici di Hamas, si dichiarano ciascuno interpreti autentici della propria tradizione — l’ebraismo e l’islam — ma nei fatti  calpestano gli insegnamenti della loro stessa religione. Perché l’ego non porta alla pace interiore e collettiva ed al bene personale e della collettività, porta alla pretesa di avere ragione giustificando la vendetta.

Ed è proprio l’ego il vero colpevole delle stragi di innocenti: convince che il perdono sia una debolezza, mentre invece è l’arma più grande che l’uomo abbia a disposizione per distinguersi come essere spirituale, religioso, evoluto, capace di aspirare al bene e alla pace. L’ego spinge a credere che la reazione sproporzionata, giustificata da teorie ideologiche assurde, possa garantire la giustizia. Ma la vera giustizia non appartiene agli uomini: appartiene a Dio. E chi nega il perdono, alla fine, nega anche il Dio in cui dice di credere.

Le conquiste territoriali non porteranno pace a Israele. Potranno estendere i confini, ma non proteggeranno le case, i bambini, i mercati, le scuole. La vera sicurezza nasce dalla pace, non dalla forza. E l’Europa lo dimostra: paesi un tempo dilaniati da nazionalismi e guerre oggi raccolgono i frutti di decenni di convivenza pacifica, pur mantenendo lingue, culture e bandiere diverse.

Questa dovrebbe essere la via anche per Israele e Palestina: non l’estensione dei confini, ma la pace a seguito del reciproco perdono. Non la logica della rappresaglia, ma quella della convivenza. Solo così l’occhio per occhio non diventerà lo strumento che miete vittime innocenti e fa vivere nel dolore e nella paura popoli interi. 

È chiaro, tuttavia, che i palestinesi di Hamas — pur responsabili anch’essi di azioni terroristiche — non possono essere messi sullo stesso piano degli israeliani, perché la sproporzione è imposta in primo luogo dalla potenza militare e politica esercitata da Israele, in particolare dai suoi settori più fondamentalisti. Per questo motivo, se davvero si vuole spezzare la spirale dell’odio, l’iniziativa deve partire da Israele, che porta la responsabilità principale di questo conflitto. Solo così l’occhio per occhio non diventerà la cecità di due popoli interi.

Eppure, accanto alle motivazioni religiose, ideologiche, di sicurezza dei confini, un altro fattore non meno importane impedisce lo stabilizzarsi della pace: quello degli interessi economici. Da una parte i finanziamenti provenienti dal Qatar e da altre monarchie della Penisola Arabica, che alimentano Hamas e ne perpetuano la capacità di colpire. Dall’altra i grandi giacimenti di gas naturale al largo della Striscia di Gaza, che rendono quell’area non solo una questione di sicurezza, ma anche una posta miliardaria nel gioco geopolitico.

Ancora una volta, dunque, a dettare i tempi della guerra ed ad allontanare la pace non sono i popoli — che chiedono solo di vivere in pace — ma l’economia, il denaro e le ambizioni di potere. Così queste guerre diventano, in realtà, stragi di innocenti funzionali a calcoli miliardari e strategie di potere, nelle quali intere popolazioni civili vengono sacrificate senza aver alcuna parte nelle decisioni che le condannano. Una tragedia nella tragedia: il conflitto che si presenta come religioso e identitario è, nel profondo, anche la conseguenza di interessi materiali da cui nessuno sembra voler recedere.

E vi è infine un altro elemento non trascurabile: quello politico. È opinione diffusa che il governo Netanyahu, al termine della guerra, difficilmente potrebbe essere rieletto. Perciò, il mantenimento dello stato di emergenza e la posticipazione delle elezioni appaiono come un interesse concreto per una leadership che sopravvive solo nella logica del conflitto permanente. In questo modo, la pace non è semplicemente rinviata: è resa impossibile da chi trae vantaggio diretto dal suo fallimento.

Per concludere, è difficile immaginare che a breve si possa raggiungere una pace duratura, anche perché la partita non si gioca soltanto tra Israele e Palestina, ma coinvolge le grandi potenze e perfino l’Europa. Gli stessi paesi europei che hanno riconosciuto la Palestina come Stato — come la Spagna, e la Francia a settembre 2025 — si sono visti attaccare duramente dai circuiti della finanza internazionale, segno che ogni passo verso una soluzione equa viene subito ostacolato da chi teme di perdere rendite e interessi consolidati. Così, ancora una volta, la logica del denaro e del potere pesa più della vita degli innocenti.

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