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Inchiesta Sala, speculazione a Milano: è solo la prima crepa di un sistema che sta riscrivendo l’Italia intera

Dall’indagine su Sala ai palazzi di vetro: così Milano è diventata il laboratorio di un modello che sta trasformando (e svuotando) tutte le città italiane.

21 Luglio 2025

Inchiesta Sala, speculazione a Milano: è solo la prima crepa di un sistema che sta riscrivendo l’Italia urbana

Le Versailles contemporanee si chiamano Palazzi di Vetro. E, proprio come accadeva alla corte di Luigi XV, anche qui, tra le ombre proiettate dai nuovi e altissimi grattacieli, si annidano segreti, patti, giochi di potere.

Forse, la stessa insegna ceduta dello Storto è stata il presagio di un epicentro ben più esteso: quello che, nelle ultime ore, ha raggiunto il cuore dell’edilizia urbana meneghina. Non è un caso se sono le crepe, spesso, le prime a raccontare il crollo imminente. Soprattutto quando tutto poggia su una sola, fragilissima base: il denaro.

Ma qui arriva il punto. L’inchiesta che coinvolge il sindaco Sala non è un’anomalia. Non è una deviazione. E non è un inciampo narrativo nel racconto levigato di una Milano vetrinizzata.

Perché Milano non è l’eccezione. È la regola. È solo l’ultima, fragorosa crepa in una struttura che da anni cede in silenzio — da Palermo a Torino, da Bari a Verona, passando per Roma e Napoli.

Il problema è sempre lo stesso. Ed è trasversale. Non riguarda il centrosinistra o il centrodestra, i riformisti o i populisti, gli ecologisti o i securitari.

Riguarda un Paese dove lo spazio pubblico è diventato carne da macello per gli interessi privati.

È la storia di un saccheggio sistematico, condotto a colpi di cemento e parole melliflue: “rigenerazione”, “valorizzazione”, “modernità”, “decoro”, “sicurezza”.

Parole d’ordine diverse a seconda del partito, ma stesso esito: l’espulsione di chi non produce valore economico. Il precario, l’artigiano, l’anziano con la pensione minima, il ceto medio.

Non c’è nulla di nuovo, in fondo. È così dagli anni Cinquanta. Solo che allora, tra una colata e l’altra, qualche casa popolare si costruiva.

Oggi no. Oggi c’è solo rendita. E una brochure patinata per giustificarla.

Milano è solo la prima testa a cadere nella ghigliottina.

A Roma, già nei primi anni Duemila, sotto le giunte Veltroni e Alemanno, si è cominciato a parlare con insistenza di “valorizzazione del patrimonio pubblico”. Un’espressione rassicurante, apparentemente tecnica, che in realtà ha giustificato la svendita sistematica di interi complessi edilizi.

Uno dei casi più emblematici è quello di Tor di Valle, l’area dove sarebbe dovuto sorgere il nuovo stadio della Roma. Il progetto, lanciato nel 2012 e approvato nel 2017 con il sostegno trasversale di PD e M5S, è stato venduto come un’occasione storica di rilancio urbanistico.

Ma il terreno è stato acquistato da un fondo immobiliare per poco più di 50 milioni, l’area è rimasta abbandonata, e il progetto si è trasformato in un contenzioso milionario. Dopo la cancellazione definitiva nel 2021, l’AS Roma ha vinto il ricorso al TAR, e il Comune ha ipotizzato (salvo poi ritrattare) un risarcimento fino a 311 milioni di euro.

L’unico risultato concreto? Un’area dismessa e nessuna ricaduta reale sulla città.

Intanto, San Lorenzo, un tempo quartiere popolare, è diventato terreno di conquista per fondi e operatori del turismo e della formazione privata. I bilocali superano i 1.900 euro al mese, mentre una stanza in appartamento condiviso si aggira tra i 420 e i 750 euro.

A tutto questo si aggiunge l’effetto PNRR: risorse pubbliche investite nella costruzione di studentati gestiti per oltre il 75% da soggetti privati, che nulla hanno a che fare con l’edilizia popolare o con il diritto allo studio.

Il risultato è chiaro: più investimenti, meno città. Un quartiere svuotato dei suoi abitanti storici, trasformato in vetrina per chi può permetterselo. Il linguaggio è sempre lo stesso: sviluppo, innovazione, attrattività. La realtà, come sempre, è un’altra.

A Napoli, il boom turistico iniziato nel 2013 ha cambiato volto al centro storico. In meno di dieci anni, gli affitti sono aumentati del 78% (Nomisma, 2022), trasformando interi quartieri popolari in un resort permanente a cielo aperto.

Solo nel centro, si contano oltre 900 annunci attivi su Airbnb. I vecchi contratti di locazione vengono disdetti, le case ristrutturate e rimesse sul mercato a uso turistico.

Inquilini storici, studenti, precari, disoccupati: chi non produce reddito istantaneo viene spinto fuori.

Il Comune ha annunciato più volte una regolamentazione degli affitti brevi. Ma, tra deroghe e zone grigie normative, l’impatto è stato pressoché nullo.

Il centro resta il volto da cartolina, quello del murale di Maradona che veglia su quartieri finti popolari, dove si cerca ancora di simulare l’autenticità con qualche panno steso fuori.

Ma dietro quell’immagine patinata, la città reale si dissolve.

Anche a Palermo, il copione è lo stesso. Il centro storico è stato restaurato per attrarre il turismo “di qualità”, ma la vera qualità che conta è quella degli incassi.

Nel 2023 si contavano oltre 2.500 alloggi turistici nel solo centro, pari a quasi la metà del totale cittadino. Secondo i dati, un alloggio breve ogni dieci residenti.

Il guadagno medio da una casa vacanza sfiora i 9.000 euro l’anno, contro i circa 5.500 di un affitto tradizionale. Il fatturato complessivo stimato supera i 50 milioni di euro.

E se la facciata ristrutturata serve a rendere la città vendibile, basta allontanarsi di poche traverse per ritrovare cumuli d’immondizia, marciapiedi dissestati, lampioni spenti e strade piene di buche.

Anche la percezione di sicurezza resta bassa: molte zone del centro, la sera, si svuotano lasciando spazio a un vuoto urbano dove il turismo convive con l’abbandono e la microcriminalità.

Palermo conosce bene questi meccanismi.

Negli anni Sessanta, il “Sacco di Palermo” fu la prima grande ferita urbana dell’Italia repubblicana: una colata di cemento senza precedenti, che cancellò Ville Liberty, agrumeti, paesaggi storici e memoria architettonica in nome della speculazione edilizia.

All’epoca erano i palazzinari e i clan politici, oggi sono gli host, gli investitori e i fondi immobiliari.

A Torino, il piano di rigenerazione post-olimpica del 2006 ha portato sì investimenti, ma anche una desertificazione progressiva di quartieri come Aurora e Barriera di Milano, oggi al centro di progetti come i “distretti dell’innovazione”. Un eufemismo per dire: nuova edilizia privata con incentivi pubblici, mentre i residenti storici vengono spinti verso la periferia.

Anche in città apparentemente “neutrali” come Verona o Bari, il processo è simile: grandi investimenti nei waterfront, nuovi piani urbanistici centrati sul turismo e la logica dell’evento.

Nessun partito è davvero estraneo. Cambia solo la retorica. La sostanza, no.

La vera forza di questo processo non sta nei cantieri. Sta nel lessico.

Le città italiane vengono trasformate non solo da escavatori e atti notarili, ma anche da parole studiate a tavolino per legittimare lo spostamento di ricchezza dallo spazio pubblico a quello privato. È un’operazione semantica prima ancora che politica.

Si chiama rigenerazione urbana, ma nella stragrande maggioranza dei casi significa una cosa sola: recupero di aree abbandonate da destinare a nuova edilizia privata a prezzo di mercato. Lo “spazio recuperato” non è mai per chi ne ha più bisogno, ma per chi può pagare.

Si parla di valorizzazione del patrimonio pubblico, ma si intende svendita di immobili statali e comunali a fondi di investimento, spesso a prezzi simbolici, con la promessa di un ritorno economico (che raramente arriva).

Si invoca inclusione sociale, ma solo se non disturba l’estetica del quartiere. I poveri vanno bene nei manifesti, non nei condomini.

Si promette sostenibilità, ma si costruiscono torri di vetro con vista panoramica in zone gentrificate, lontanissime da qualunque logica di equilibrio territoriale.

A destra, il dizionario cambia: sicurezza, decoro, legalità. Ma il sottotesto è lo stesso: liberare le città da chi “rovina la vetrina”. Non si costruiscono politiche per i cittadini, si costruisce una narrazione per l’investitore.

Come spiega Lucia Tozzi nel suo libro L’invenzione di Milano, non è la città a cambiare, è il suo racconto a essere costruito a uso e consumo di chi comanda. Milano non è diventata improvvisamente moderna, internazionale, aperta: è stata venduta così, a partire da Expo 2015. Il brand “Milano” ha sostituito la città reale, e questo modello è stato esportato in tutta Italia.

Le parole sono armi. E, in questo caso, sono usate per rendere socialmente accettabile ciò che — se detto con onestà — sarebbe inaccettabile.

È il trionfo dell’urbanistica post-politica: una città depoliticizzata, decontestualizzata, ripulita dalla realtà per diventare appetibile al mercato. Una merce tra le merci.

In teoria, le città italiane sono governate da sindaci eletti democraticamente, con consigli comunali e piani regolatori. In pratica, le scelte fondamentali sono sempre più influenzate — quando non direttamente dettate — da soggetti esterni alla sfera pubblica.

Fondi immobiliari, REIT internazionali, banche d’investimento, SGR partecipate da istituti esteri. Sono loro, oggi, i veri motori della trasformazione urbana. Non rispondono agli elettori, ma agli azionisti. Non operano secondo un mandato pubblico, ma secondo logiche di profitto.

I Comuni non pianificano: negoziano. Trattano con chi ha i capitali, cercano di “attrarre investimenti”, spesso svendendo ciò che resta del patrimonio pubblico. L’interesse collettivo diventa una clausola residuale, un vincolo fastidioso da aggirare.

Milano è il laboratorio più evidente di questo cambio di paradigma. Come scrive Lucia Tozzi, «la sfera politica è stata progressivamente neutralizzata a favore di una governance tecnocratica, compatibile con gli interessi economici dominanti».

Non si tratta solo di urbanistica. È una ridefinizione delle priorità politiche della città. Gli interessi di chi investe — immobiliari, turistici, finanziari — diventano automaticamente interesse generale.

E questo ha un impatto diretto anche sul piano elettorale. Sempre Tozzi osserva come a Milano le campagne elettorali siano ormai costruite in modo da non disturbare gli equilibri immobiliari, anzi: spesso i candidati si presentano con agende già “compatibili” con le aspettative del mercato.

E così, mentre la democrazia urbana viene svuotata, la città diventa sempre più un terreno di estrazione economica, una “zona franca” per interessi privati protetti da una narrazione civica rassicurante.

In questo quadro, l’inchiesta su Milano — pur importante — rischia di sfiorare solo la superficie del problema. Il conflitto vero è tra chi la città la abita e chi la sfrutta. Tra chi la vive e chi la monetizza.

Le città si stanno svuotando, ma non nel senso poetico del termine. Si stanno svuotando di chi non può più permettersi di viverci.

Il risultato è che le città non sono più progettate per essere abitate, ma per essere consumate.

I mercati premiano l’estetica e l’efficienza, ma puniscono la povertà. La povertà “distorce il brand”, rovina la narrazione, crea conflitto, interrompe la visione patinata. E allora viene espulsa, smaltita, nascosta.

Non è un effetto collaterale. È il cuore stesso del modello.

Ma c’è un’ultima verità, forse la più scomoda.

Quella che Tozzi chiama la “cittadinanza a breve termine” — una classe di nomadi agiati, altamente mobili, senza memoria né radicamento — non è solo un prodotto del nuovo modello urbano. Ne è l’architrave politica.

Sono loro il pubblico ideale di questa trasformazione: consumano e non hanno certo bisogno di rivendicare. Affollano i dehors, vivono le grandi città fino al giovedì sera. E proprio per questo funzionano come uno scudo democratico perfetto, perché neutralizzano il peso elettorale dei residenti storici, dei ceti popolari. Questo proposito basta per rispondere ai risultati delle diverse elezioni comunali, quando si risponde alla differenza sostanziale di un partito politico che primeggia nel centro ma non nelle periferie.

A Milano, scrive Tozzi, questo meccanismo è in atto dal 2011. Ogni elezione, locale o nazionale, vede il centrosinistra vincere non per proposta, ma per composizione sociale: è cambiato l’elettorato.

In altre parole: non si è trasformata solo la città. Si è trasformato il suo corpo politico.

Appare forse generoso il paragone con Versailles. Eppure, è anche profondamente giusto.

Quei palazzi di ceramica, ovattati dal caos parigino e francese, erano luoghi perfetti e scintillanti, accessibili solo a pochi eletti. Là tutto funzionava, tutto seguiva una meccanica esatta.

Mi ha sempre colpita il modo in cui i grandi imperi — umani o geografici — possano appassire con la stessa facilità di un’orchidea a cui non si dà più da bere.

È qualcosa che mi ha insegnato molto sulla natura stessa del potere.

Possono cambiare le strutture, i linguaggi, le nazionalità. Ma la tendenza a costruire gerarchie autoreferenziali, capaci di funzionare solo secondo una logica interna e autoregolata, è qualcosa che appartiene all’essere umano in quanto tale.

Soprattutto quando esiste uno spazio vuoto, pronto ad essere occupato, contaminato, dominato.

La Versailles di oggi somiglia forse alla Selinunte del presente: restano le testimonianze, i resti, le porzioni meglio conservate.

E resta soprattutto il ricordo.

Il ricordo che le prime crepe non sono mai venute da fuori.

Nessuna frattura capace di far crollare un edificio è di origine esogena.

Le vere crepe sono interne, figlie del proprio stesso modello, generate e alimentate dalla propria architettura. Fratricide, inevitabili.

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