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Casa troppo cara per i giovani italiani: oltre 1 milione vive ancora con i genitori e il 62% non riesce a comprarla

Contratti precari all’80% al Sud, stipendi sotto i 1.400 euro: così oltre 1 milione di giovani italiani vive con i genitori, senza casa né futuro, mentre cresce l’emigrazione all’estero.

11 Luglio 2025

Casa troppo cara per i giovani italiani: oltre 1 milione vive ancora con i genitori e il 62% non riesce a comprarla

Dalla rivista Science l 'allerta sulla fuga dei cervelli (fonte: Rawpixel)

Si parla spesso del dramma dei mammoni in Italia. Con un sorrisetto di superiorità. Come se fosse colpa loro. Come se fosse una tara genetica di questa generazione, incapace di crescere, di andarsene da casa, di farsi una vita.

Ma io mi chiedo: dove vivono, quelli che parlano così? L’hanno vista, l’Italia del 2025? Non è più il Paese dei paninari e dei Ray-Ban specchiati. Non è più quello degli anni Ottanta, quando qualsiasi padre pensava dei figli: «qualunque cosa tu diventerai, starai meglio di me».

Un milione di giovani italiani vive ancora con i genitori: non è una scelta

Quell’Italia lì è morta. E al suo posto ne è nata una dove il 62% degli italiani tra i 29 e i 39 anni non è ancora riuscito a comprare casa perché semplicemente non se lo può permettere. Dove oltre un milione di persone in quella stessa fascia d’età vive ancora con mamma e papà. Non per scelta. C’è anche una questione banale di mercato.

Oggi la gran parte dei giovani, per poter lavorare, è costretta a trasferirsi lontano dalla propria terra d’origine, finendo spesso negli agglomerati metropolitani di Roma o Milano. Lì si apre un futuro tutto da costruire, ma quasi sempre da soli.

Chi comincia così, con il salario medio reale della propria fascia d’età e senza l’aiuto economico della famiglia, riesce a permettersi al massimo una stanza in affitto. Ma anche quella, schiacciata dalla domanda crescente, costa cara e prosciuga gran parte dello stipendio e delle possibilità di risparmio. E questa situazione va avanti finché non arriva, con fatica e sempre più tardi rispetto ai coetanei all’estero, il tanto agognato aumento di stipendio.

Chi riesce, invece, secondo le statistiche, a mettere su casa ha quasi sempre alle spalle l’aiuto paterno. Sette su dieci tra i “fortunati” che sono riusciti a comprare casa negli ultimi cinque anni, ce l’hanno fatta solo perché i genitori hanno fatto da garanti al mutuo, o hanno pagato le spese accessorie, o hanno semplicemente regalato i soldi. Un terzo di questi – 276 mila persone – ha preso casa senza nemmeno accendere un mutuo. Perché il mutuo glielo ha fatto la famiglia.

Questa è l’Italia di oggi. Altro che mammoni.

La stessa università è diventata un supermercato di lauree, dove non si studia più per conoscenza o passione. Si studia perché se non ce l’hai, quel titolo in più, non sei nessuno. Ma la verità, la verità cruda, è che anche con tutti quei titoli, spesso non si fa niente lo stesso. Parlano i numerosi stage, i contratti precari, i tirocini pagati talmente poco da non permetterti di vivere nemmeno in un monolocale da venti metri quadri.

Perché poi sarebbe sbagliato ridurre l’Italia a Milano. L’Italia non è Milano e neppure Roma.

Nelle province italiane, il lavoro si regge quasi sempre su contratti a tempo determinato: in Basilicata, nel 2023, questa forma di precarietà arriva a coprire l’82,2% delle attivazioni, in Puglia l’80,9% e in Calabria l’80,8%, secondo i dati ufficiali del Rapporto Annuale sulle Comunicazioni Obbligatorie 2024 del Ministero del Lavoro. Anche fuori dal Sud, in territori come Bolzano (78,4%), Trento (75,6%) o Valle d’Aosta (69,8%), quasi otto rapporti su dieci sono a termine.

Il tempo indeterminato, quello che una volta era la regola, oggi è diventato quasi un privilegio: nel 2023 rappresenta appena il 14,2% di tutte le nuove assunzioni, con punte più alte solo in Lombardia (20,2%) o Piemonte (19,3%), mentre in Puglia scende fino al 7,6%. A farla da padrone, spesso, sono settori a basso valore aggiunto come l’agricoltura — che in Basilicata arriva ad assorbire il 40,1% dei contratti — o il turismo, forte in Sardegna e Campania. E se al Nord prevalgono i servizi alle imprese, nel Lazio è il settore dei servizi sociali a trainare quasi metà dei contratti.

A questo si aggiungono migliaia di tirocini, sempre meno numerosi e quasi sempre insufficienti per mantenersi: basti pensare che nel 2023 sono calati complessivamente del 9,6% rispetto all’anno precedente, con crolli drammatici in Sicilia (-24,7%) e Toscana (-19,6%). L’Italia delle province è l’Italia della precarietà, dei lavori stagionali, degli stipendi bassi e delle prospettive limitate. E tutto questo, di fatto, rende impossibile immaginare un futuro stabile, comprare casa o mettere su famiglia.

E intanto, mentre i nostri stipendi reali sono calati dell’8,7% rispetto al 2008 — il dato peggiore del G20, se proprio vogliamo dirlo — lo Stato si balocca con soluzioni tampone. Come il Fondo di Garanzia Prima Casa, che ha permesso a tanti under 36 di ottenere mutui fino al 100% del valore dell’immobile. Ottantamila finanziamenti l’anno scorso, dicono le cifre ufficiali. Un buon punto di partenza, certo. Ma niente più che una pezza su una voragine. Perché la verità è che non basta un fondo per cambiare la realtà di chi guadagna mille euro al mese.

E allora la domanda vera è questa: cosa significa autodeterminarsi oggi? Significa guardare affitti da millecinquecento euro al mese e fare due conti, scoprendo che ti restano trecento euro per campare. Significa rimandare figli, matrimoni, sogni. Significa chiedere ai genitori di firmare il mutuo, di mettere una firma sulla tua vita perché da solo non puoi farcela.

Eppure, dovrebbe essere un’altra la bussola che guida un Paese: la meritocrazia. Dovrebbe contare ciò che sai fare, ciò che sei, quanto vali davvero, non il censo in cui sei nato o il conto in banca dei tuoi genitori. La possibilità di costruirsi una vita dovrebbe dipendere dal talento, dall’impegno, dalla capacità di misurarsi con il mondo. E invece, troppo spesso, in Italia conta ancora il cognome, il posto in cui sei nato, chi può garantire per te davanti a una banca o a un datore di lavoro.

Meritocrazia significa dare a chiunque — figlio di operai o di professionisti, nato in Basilicata o a Milano — le stesse possibilità di emanciparsi, di comprare una casa, di metter su famiglia, di costruirsi un futuro. Dovrebbe essere questa la nostra chiave. Dovrebbe essere questa la nostra civiltà. E invece siamo rimasti fermi, bloccati in un Paese che non premia chi merita, ma chi può permettersi di non aver bisogno.

Non basta l’immigrazione a pagare le pensioni: pesa invece sul welfare

E non basta continuare a riempire l’Italia di nuovi lavoratori stranieri per tappare i buchi del mercato. Non basta. Perché anche loro finiscono nello stesso inferno: stipendi bassi, case troppo care, vite sospese. 

Ma c’è di più. C’è un pezzo di questa storia di cui non si parla mai.

Negli ultimi dieci anni, l’Italia ha perso 1,3 milioni di persone che sono emigrate per lavorare e vivere all’estero. Più di tutta la popolazione di Napoli, la terza città d’Italia. E metà di loro erano giovani tra i 15 e i 38 anni. Ragazzi e ragazze con una formazione specifica, con lauree, master, lingue straniere. Ricercatori, ingegneri, medici. Una generazione che abbiamo cresciuto e istruito a caro prezzo, che ci siamo lasciati scappare perché qui non aveva spazio.

E il paradosso è questo: per ogni giovane straniero che si stabilisce in Italia, quasi nove giovani italiani se ne vanno. Perché fuori da qui, un giovane laureato guadagna mediamente 1963 euro netti al mese a un anno dalla laurea. Qui, invece, si ferma a 1384 euro. E il premio salariale di una laurea in Italia è solo del 30%, contro il 48% della media europea. Studiare in Italia significa rischiare di essere poveri comunque.

Intanto ci raccontano la favola che “tanto importiamo altri lavoratori dall’estero”. Ma la verità è che il mito dell’immigrazione non potrà mai sostituire quello che stiamo perdendo. Perché la manodopera che arriva è spesso low skilled. Perché non parla la nostra lingua, non conosce la nostra cultura, e non può colmare il vuoto lasciato da giovani italiani altamente qualificati che se ne vanno. E perché ogni nuovo arrivo significa anche più pressione su un welfare già allo stremo. Sanità, scuole, case popolari, sussidi: tutto costa, tutto si gonfia.

Nessun Paese può sopravvivere se perde i suoi giovani e importa solo povertà nuova. Nessun Paese può far finta che la casa, il lavoro stabile, un futuro, siano optional.

Questa è la realtà. Altro che mammoni.

 

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