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Terra, profitti e geopolitica: così le agri-holdings estere stanno colonizzando l’Ucraina agricola nel silenzio dell’UE

A Kiev si combatte per la sovranità, ma intanto la vera guerra si gioca nei campi: quelli già affittati da multinazionali invisibili.

09 Giugno 2025

Le agri-holdings in Ucraina

A colpi di contratti d’affitto, scatole societarie registrate in paradisi fiscali e pressioni “riformiste” ben calcolate, le terre nere d’Ucraina – le più fertili del continente – sono già in buona parte nelle mani di chi europeo non è. O lo è solo sulla carta. Americani, sauditi, fondi di private equity israeliani, olandesi, inglesi: il grande business agricolo ha già messo radici. E oggi, nel silenzio più assordante del dibattito politico, si prepara a incassare la fetta più ampia della Politica Agricola Comune.

Altro che solidarietà: rischia di diventare uno dei più consistenti trasferimenti di risorse pubbliche verso soggetti off-shore nella storia recente dell’Unione Europea

Con oltre 42 milioni di ettari coltivabili, l’Ucraina rappresenterebbe da sola circa il 20% della superficie agricola totale dell’UE allargata. Non solo: il suo suolo contiene il 30% della “terra nera” (chernozem) europea, tra le più produttive al mondo. Numeri impressionanti, destinati a tradursi in una sola parola: soldi.

Ma chi incasserebbe davvero?

Il 75-80% della terra agricola ucraina è di proprietà privata e, in buona parte, gestita da agri-holdings che operano con una fitta rete di contratti di affitto a lungo termine. 

Risultato? Un mercato fondiario opaco, in cui non è più chiaro chi possiede cosa, ma è certo chi guadagnerà: i grandi. Non il piccolo contadino, non il proprietario terriero sopravvissuto alla transizione post-sovietica, e nemmeno lo Stato ucraino, che ha già svenduto gran parte del proprio capitale agrario per attrarre investimenti.

A vederla in questa maniera, possiamo immaginare un’architettura meticolosa che ha le fattezze di un sistema che si ripete negli Stati in difficoltà. Ha un nome preciso: Land grabbing.

Sono due parole che evocano immagini da documentari africani o latinoamericani: multinazionali che sottraggono ettari su ettari a comunità indigene inermi. Eppure, il fenomeno non è circoscritto a quei soli continenti.

Partiamo dalla base. Quando parliamo di Land grabbing, ci riferiamo ad un processo per cui grandi investitori, aziende o stati stranieri acquisiscono il controllo diretto o indiretto di vaste superfici agricole in paesi terzi, solitamente con normative deboli o facilmente aggirabili. Le modalità sono varie:

  • acquisto diretto della terra;
  • contratti di affitto a lungo termine (fino a 99 anni);
  • creazione di società locali “contenitore” che legalizzano operazioni esterne.

Lo scopo? Produrre cibo, mangimi o biocarburanti per l’esportazione, spesso senza ricadute concrete sul territorio d’origine.

In Ucraina, il land grabbing non è illegale: è semplicemente mascherato da mercato libero, in un contesto dove la riforma agraria è stata portata avanti su pressione internazionale (Banca Mondiale, FMI, UE) senza un solido impianto di trasparenza.

Per vent’anni, dal 2001 al 2021, in Ucraina è stato in vigore un moratorium sulla vendita dei terreni agricoli. La terra si poteva affittare, ma non vendere. Risultato: il mercato è stato dominato da grandi agri-holdings, che hanno siglato accordi con milioni di piccoli proprietari per accaparrarsi la gestione delle terre a prezzi stracciati.

Oggi, alcune holding agricole controllano tra i 300.000 e i 500.000 ettari ciascuna.

Le principali sono:

Ettari controllati stimati

Paese di registrazione

Kernel Holding

500.000+

Lussemburgo

UkrLandFarming

500.000

Cipro

MHP (Myronivsky Hliboproduct)

370.000

Paesi Bassi

Astarta Holding

220.000

Paesi Bassi


Nonostante la legge ucraina vieti formalmente la proprietà straniera della terra agricola, le falle normative permettono di aggirare la restrizione tramite società registrate in Ucraina ma controllate da capitali esteri, fusioni e acquisizioni in cui il beneficiario finale è difficile da identificare e registrazioni in giurisdizioni offshore (Lussemburgo, Cipro, Olanda) che garantiscono anonimato e vantaggi fiscali.

Tra gli attori stranieri che hanno messo radici nella terra ucraina figura NCH Capital, fondo statunitense che è stato tra i primi a scommettere sull’agricoltura locale, acquisendo ampie superfici tramite affitti pluriennali. A fianco degli americani, SALIC, il fondo sovrano dell’Arabia Saudita, è entrato nel gioco per garantire la sicurezza alimentare del regno, investendo in maniera indiretta ma strategica. Si affacciano poi fondi israeliani e britannici, spesso camuffati da società locali, con partecipazioni nei principali gruppi agro-industriali ucraini.

Il paradosso è evidente: un paese che combatte per la propria sovranità territoriale rischia, sul piano agricolo, di non possedere più nemmeno la propria terra. E con l’accesso alla PAC, sarà l’Unione Europea a pagare – indirettamente – i dividendi di questi investitori.

Chi beneficerà realmente dei fondi PAC destinati all’Ucraina? I piccoli agricoltori locali o le grandi holding agricole registrate a Cipro o Lussemburgo?

Se l’Ucraina entrerà nell’Unione Europea – perché politicamente si affronta l’eventualità ciecamente– l’agricoltura sarà il primo dossier a esplodere. Non per motivi ideologici, ma per una semplice ragione: la PAC, così com’è, non reggerebbe l’urto.

Secondo le regole attuali, Kyiv sarebbe eleggibile a ricevere decine di miliardi di euro in fondi agricoli nell’arco di un solo settennio. Alcune stime parlano di 97 miliardi. Per avere un termine di paragone, la Francia – che è attualmente il principale beneficiario della PAC – riceve 49,7 miliardi nello stesso periodo. L’Ucraina la supererebbe di slancio.

E questi soldi non sarebbero "nuovi": verrebbero sottratti – attraverso una redistribuzione forzata – agli agricoltori italiani, francesi, spagnoli, polacchi.

Secondo delle stime, almeno il 20% dei sussidi agli agricoltori UE verrebbe tagliato per far spazio all’ingresso ucraino.

Una bomba politica. Basta immaginare la reazione dei produttori del Sud Italia, delle cooperative francesi, o dei piccoli agricoltori rumeni, già in affanno, quando scopriranno che le loro risorse saranno deviate verso holding con sede a Cipro o Lussemburgo, che magari affittano terre in regioni ancora minate.

La terra è potere. A volte, affrontando questi temi, è necessario doversi specchiare per avere di rimando il riflesso del proprio passato dritto e fermo a guardarci.

Per un italiano, questo processo di immaginazione non verrebbe difficile: è stata la nostra storia fino al secolo scorso. Respira nelle pagine di Giovanni Verga, col personaggio di Mazzarò, il suo avaro latifondista, e l’autore per parlarne disse che “pareva che fosse di Mazzarò perfino il sole che tramontava, e le cicale che ronzavano, e gli uccelli che andavano a rannicchiarsi col volo […] Pareva che Mazzarò fosse disteso tutto grande per quanto era grande la terra, e che gli si camminasse sulla pancia.”

E’ sempre la terra, sporca, fertile, bagnata, che fa piegare il mondo. Quello di ieri. Quello di oggi.

 

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