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La scelta della Meloni di non “scaldare” il referendum nasconde due nomi ingombranti: l'avversario Renzi e l'impercettibile Calderone

In poche parole tattica e strategia si intersecano. Scegliendo, come dicevamo, di non scaldare la campagna e di non indicare una preferenza, la Meloni smina il terreno da due nomi, uno ingombrante l’altro impercettibile per non dire invisibile

03 Giugno 2025

Renzi, Meloni, Calderone

Collage LaPresse

Così scrive Ferruccio De Bortoli: “È del tutto legittimo che un elettore possa andare al seggio e non ritirare la scheda per votare. Ma se quel singolo elettore è la presidente del Consiglio il gesto non rimane privato e assume la forma di un cattivo esempio. Anche perché immaginiamo che Giorgia Meloni, sul tema delle regole del mercato del lavoro, abbia le idee chiare. Il suo governo può vantare un indiscutibile successo sul fronte dell’occupazione e forse sarebbe stato opportuno, con un no ai quattro quesiti referendari, difendere tutte le scelte compiute in passato”.

L’ex direttore del Corriere rilancia alcuni spunti su cui abbiamo già avuto modo di scrivere e riflettere, ma vale la pena riprenderne il senso. La scelta di non portare una battaglia referendaria sull’opzione “mancato raggiungimento del quorum” non è fuori dalla Costituzione pertanto non può essere “un cattivo esempio”, come invece scrive De Bortoli. Lo sarebbe se fosse in una zona grigia ma la carta fondamentale solo per il referendum ha voluto fornire una indicazione che in nessun altro caso - nemmeno i referendum confermativi delle riforme costituzionali - ha indicato. Pertanto sblocca una opzione che sta interamente dentro la grammatica sia istituzionale che politica. E la Meloni, annunciando che andrà ai seggi ma non ritirerà la scheda, interpreta sia il rispetto per la Costituzione sia la scelta politica. Che qui vale la pena approfondire.

De Bortoli, infatti, rilancia il tema delle politiche del lavoro dell’esecutivo Meloni: “immaginiamo che Giorgia Meloni, sul tema delle regole del mercato del lavoro, abbia le idee chiare. Il suo governo può vantare un indiscutibile successo sul fronte dell’occupazione”. È vero che questo governo può vantare dei dati importanti e di successo sull’occupazione ma sulle regole del mercato del lavoro e soprattutto sulle retribuzioni il governo sa di camminare sulle uova, per questo ha scelto di astenersi dalla battaglia referendaria. Chi frequenta e parla con la presidente del Consiglio e il suo enturage sa benissimo che la premier non è affatto soddisfatta di quel che elabora il ministero del Lavoro e men che meno considera la Calderone un valore aggiunto. Eppure il lavoro (concetto maggiormente di qualità rispetto al più generico occupazione) è e sarà il dossier su cui si dovrà concentrare il governo.

In poche parole tattica e strategia si intersecano. Scegliendo, come dicevamo, di non scaldare la campagna e di non indicare una preferenza, la Meloni smina il terreno da due nomi, uno ingombrante l’altro impercettibile per non dire invisibile. Il nome ingombrante è Matteo Renzi. Il nome imbarazzante è Marina Elvira Calderone. Renzi è il padre delle norme che il Pd della Schlein vorrebbe cancellare e che invece la premier vorrebbe difendere: se esplicitasse il suo no darebbe punti a Renzi (che oggi è il suo principale avversario di tribuna politica); non dicendo nulla lascia che il Pd si scanni al suo interno.

Quanto alla titolare del ministero del Lavoro è una di quelle figure tecniche che non sta lasciando segni particolare, è impercettibile, invisibile, a volte persino imbarazzante quando emergono conflitti di inopportunità e chiacchierate lauree con università assai amiche del governo come quelle del gruppo Polidori. La Calderone non incide, non contrasta i sindacati e non lascia traccia rispetto alla delicata questione dei salari. Non a caso la Meloni sta giocando di sponda con la nuova segretaria della Cisl, Daniela Fumarola. Con la quale ha un filo diretto politicamente proiettato ai prossimi mesi.

di Gianluigi Paragone

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