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La "smemoria" sul generale Dalla Chiesa, ucciso 42 anni fa dalla mafia ma forse non solo dalla mafia

Si dice: Dalla Chiesa aveva sconfitto il terrorismo ed è stato ucciso da Cosa Nostra. Quello che non si dice, è che con ogni probabilità le cose erano consequenziali e affondano in segreti di Stato che Dalla Chiesa conservava. Finché la mafia non ha reso il favore allo Stato.

03 Settembre 2024

Generale Dalla Chiesa

Tutti come ogni anno a ricordare il generale Dalla Chiesa del quale nessuno si ricorda più. Tutti a commemorarlo il generale ammazzato dalla mafia, da Mattarella a Giorgia Meloni fino alla Sicilia mafiosa che non si fa mancare una ricorrenza, da concludere regolarmente a tavola, nei ristoranti migliori tutti gestiti dalla mafia. E tutti a ripetere: l’ha ammazzato la mafia, ma non è andata proprio così, cosa che la nostra premier, all’epoca infante, può non sapere ma che di certo non ignora il nostro Presidente siciliano e ultraottuagenario. La mafia ha funzionato da braccio armato, da manovalanza in questo caso. Per conto di chi? L’ultima intervista il generale già sconfitto la affida a Giorgio Bocca il quale, in modo partecipe, anche affettuoso, ma con spietato realismo, percepisce subito, e non lo nasconde, l’orrendo isolamento in cui l’isola ha già fatto precipitare il generale molesto dopo pochi mesi. Dalla Chiesa era già morto, un cadavere che camminava ma che nessuno ascoltava, vedeva, al quale nessuno obbediva. Lui aveva accettato quest’ultima sfida, per amor del Paese, per scrupolo militare, per sfida esistenziale, quello che vi pare, lui che da giovane graduato aveva messo alla corde prima la mafia rurale, del banditismo, poi, a ondate, quella emergente dei Liggio, dei Fidanzati, dei Bontate che poi ritrovava nella Milano gansteristica, e voleva riprovarci in finale di partita, coi Riina e i Provenzano, vincitori della guerra mafiosa, per chiudere il cerchio: in mezzo, la stagione vittoriosa, quasi leggendaria, contro il terrorismo.

Ma il terrore mafioso è diverso da quello brigatista, è più compartimentato, meno permeabile. Più siciliano, e il generale dei carabinieri se ne accorge o se ne ricorda subito: deve istruire la moglie, la giovane Emanuela, a non accettare certi inviti, certe lusinghe all’apparenza innocenti ma che intanto si stringono, stritolano lentamente nel modo pitonesco che usa la mafia. In più, Andreotti lo ha spedito in Sicilia senza i poteri speciali che Dalla Chiesa reclamava, e privo dei quali non può fare niente. Difatti non combina niente, quando, il 3 settembre di 42 anni fa, un commando trucida lui, la moglie e l’agente di scorta su una piccola A 112, una utilitaria, tutto ha il sapore della esecuzione di un morto, di una tragedia annunciata ma farsesca.

Chi lo voleva tolto di mezzo il generale? Qui bisogna fare alcuni passi indietro, fino a tre, quattro anni prima. Dopo via Fani, dopo Aldo Moro, i brigatisti sembrano invincibili: hanno, in realtà, cominciato a distruggersi da dentro, svuotati dopo quella impresa terroristica talmente incredibile da non parere possibile senza vigorosi aiuti dallo Stato. E gli aiuti ci sono, a caterve, vanno dalla fornitura di armi e basi logistiche assicurata dallo Stato ai terroristi, fino alle complicità operative. Dopo Moro lo Stato pensa, capisce che i pupazzi in sua mano non obbediscono più, sono impazziti o si sono montati la testa, fatto sta che il brigatismo, il terrorismo in genere è un vaso di Pandora che nessuno riesce più a richiudere. Viene così investito il generale, che già 4 anni prima aveva messo il sale sulla coda sui capi della BR originarie: Curcio e Franceschini neutralizzati a Pinerolo, ancora ai primi di settembre, grazie a un’imboscata di Silvano Girotto detto “frate mitra!”, un infiltrato dei Servizi gestito da Dalla Chiesa, la Cagol cade in una sparatoria alla Cascina Spiotta, resta il solo Mario Moretti che è una spia la cui latitanza viene garantita dallo Stato per 9 anni ed alla quale lo stesso Dalla Chiesa deve adeguarsi. Dopo di che Dalla Chiesa viene sterilizzato, messo da parte, indotto a non insistere. Ma adesso la situazione è degenerata e il generale è di nuovo “in charge”, ed è ancora Andreotti ad averlo incaricato: Cossiga, umiliato dai 55 giorni del sequestro Moro in cui i brigatisti si fanno beffe dello Stato, non ha più voce in capitolo (verrà incredibilmente recuperato due anni dopo alla presidenza del Consiglio, viatico per quella della Repubblica). Ma Andreotti ha le sue ragioni per non fidarsi, per preoccuparsi di quel generale uso “nei secoli a servire” ma a modo suo. “E’ un duro, ed è un tecnico” scrive di lui Bocca. Da duro, non esita a procedere a stragi tattiche, come nelle carceri o in via Fracchia a Genova, da tecnico usa prima di tutti le nuove tecnologie, adopera il computer con cui ricostruisce gli spostamenti dei brigatisti, che trasforma da cacciatori a prede, e perfeziona l’anagrafe catastale dalla quale individua a colpo sicuro i loro covi. E senza covi, le Brigate Rosse crollano. Il più importante non sta a Roma, non nelle plurime sedi in cui Moro prigioniero viene smistato e non sta in via Gradoli, tana di Moretti e della Balzerani nel controllo dei Servizi; quasi tutte le abitazioni di quella via, e praticamente tutte quelle del doppio condominio al numero 96, appartengono a fiduciarie dei Servizi Segreti. Ma Dalla Chiesa punta altrove, a Milano dove ha già individuato il covo in cui Lauro Azzolini porta copia del memoriale di Moro, trascritto e fotocopiato dal suoi carcerieri. Uomini scelti del generale, duecento in tutta Italia, un manipolo a Milano, cominciano ad agire a Lambrate già in giugno, subito dopo il ritrovamento di Moro in via Caetani: Dalla Chiesa sa che i documenti sono stati spostati in via Monte Nevoso, al numero 8 in un appartamento al piano rialzato, ma, fedele alla sua strategia di tecnico, non ha fretta. Piazza una postazione sul tetto della di fronte (dove, in quel periodo, abita, quattordicenne, chi scrive), comincia a far pedinare i brigatisti che vanno e vengono, nove in tutto tra cui il citato Azzolini e la Nadia Mantovani. Una domenica di inizio autunno, il primo ottobre, poco dopo le sette del mattino, scocca l’operazione: un commando di elementi scelti fa irruzione, si sente esplodere qualche colpo, i brigatisti, coglioni, non sanno che fuggire rintanandosi nel vicino bar Franco, d’angolo con via Porpora, e qui si arrendono come sorci messisi in trappola da soli. Ma al generale preme un altro bottino: sa che c’è il memoriale in fotocopia e, obbedendo a precise istruzioni, lo sequestra, lo occulta inizialmente alla stessa magistratura, alla quale lo riconsegna poi debitamente purgato. Non è pensabile che un uomo e un militare esperto come lui non pensi a farsene una copia personale.

Cosa c’è di tanto scabroso nel memoriale di Moro, nelle sue dichiarazioni rese ai brigatisti, che a loro volta ne riferiscono a chi di dovere? Lo si saprà solo dodici anni dopo, in una situazione ancora più grottesca: dallo stesso covo, sotto sequestro da allora, a seguito di apparentemente casuali lavori di ristrutturazione salta fuori una seconda versione del memoriale, insieme ad armi e denaro ormai fuori corso: non è ancora il memoriale completo, e tanto meno originale (non si troverà mai, forse sta in un caveau svizzero), ma lo stesso contiene segreti clamorosi come l’esistenza di Gladio, la struttura di controguerriglia atlantica in funzione anticomunista; oltre a valutazioni pesantissime nei confronti di diversi politici democristiani, Andreotti su tutti. Ma a quel punto Moro è morto, la BR sono morte, ed è abbondantemente morto lo stesso Dalla Chiesa: quei segreti non fanno più paura, non pesano più o almeno non più che tanto. Del resto, su Gladio sono già cominciate a trapelare le prime rivelazioni ed è come se Andreotti stesso avesse consentito al ritrovamento definitivo della seconda versione del memoriale. Che non sarà l’unico: gli si affianca un secondo memoriale, questo composto addirittura da due brigatisti di spicco, Valerio Morucci e Adriana Faranda, sotto la supervisione dei soliti Servizi: zeppo di bugie e di incongruenze, finirà per rappresentare la verità ufficiale, di Stato, su Moro e in generale sulla parabola brigatista.

Nel 1982 Dalla Chiesa è un eroe nazionale, ha sconfitto il terrorismo, ha salvato il Paese. Ma lo mandano in Sicilia e chi deve capire capisce che è l’ultimo atto così come pronosticato a tempo debito dal giornalista spione Mino Pecorelli, legato, in modo conflittuale, sia ai Servizi che alla P2 di Licio Gelli. Pecorelli, che per tutti e due i mesi del sequestro Moro non ha smesso di flagellare le versioni di comodo del potere a suon di rivelazioni esclusive, di anticipazioni puntualmente destinate a trovare conferma, di retroscena indicibili (definisce “brigate rosse” e “terroristi”, tra ostentate virgolette, gli attori del sequestro Moro, scopre gli altarini sui covi brigatisti, eccede in allusioni, rivela le coperture del regime consociativo democomunista), dopo la morte dello statista DC inasprisce ulteriormente i toni: “Vergogna, buffoni!”. E promette nuove, deflagranti rivelazioni su Moro, su Cossiga, su Moretti, su Andreotti... Ipotizza anche un destino fatale per il generale Dalla Chiesa: pochi mesi dopo, il 20 marzo del 1979, a Roma viene freddato da killer (rimasti ignoti) che gli sparano in bocca. Le sue profezie non smetteranno di avverarsi ancora a distanza di anni. Come quella su Dalla Chiesa. Chi lo voleva davvero morto? Chi ha accontentato chi, chi ha agito per conto di chi? Ma andiamo, queste son cose vecchie, di cui nessuno ha più memoriaa, anche gli ultimi testimoni sono spariti o vanno sparendo. Anche quest’anno, una bella commemorazione sul generale che aveva sconfitto il terrorismo ed è stato sconfitto dalla mafia. Ma la democrazia non viene sconfitta, lo Stato alla fine vince perché lo Stato siamo noi, è buono lo Stato, è fatto di martiri come Dalla Chiesa e di uomini di buona volontà.

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