Cambogia, il laboratorio geopolitico del Sud-Est asiatico: il potere dinastico di Hun Sen e la sfida a doppia chiave del governo-azienda
Nel cuore pulsante del Sud-Est asiatico, la Cambogia si trasforma, in silenzio e con astuzia, nel più dinamico — e pericoloso — laboratorio geopolitico della regione
Nel cuore pulsante del Sud-Est asiatico, la Cambogia si trasforma, in silenzio e con astuzia, nel più dinamico — e pericoloso — laboratorio geopolitico della regione. Sospesa tra la marea lunga dell’espansionismo cinese e le fibrillazioni interne dell’ASEAN, Phnom Penh ha scelto di giocare una partita a doppia chiave. Una strategia calibrata, condotta a quattro mani da un duo familiare senza precedenti: Hun Sen, patriarca onnipresente e regista delle crisi, e Hun Manet, giovane premier incaricato della gestione amministrativa e dei rapporti con l’estero.
Quella che potrebbe sembrare una transizione generazionale si rivela, nei fatti, una raffinata operazione di consolidamento dinastico. Il potere non cambia casa, semplicemente si rinnova nella forma: un governo-azienda, gerarchico e funzionale, che punta alla stabilità come valore supremo, a costo del pluralismo.
Sul piano internazionale, la Cambogia si è saldamente ancorata alla Cina, con una serie di progetti che vanno ben oltre la cooperazione economica. La base navale di Ream, rinnovata con fondi cinesi, è destinata a ospitare unità militari della PLA Navy. Non è solo una struttura logistica, ma un chiaro messaggio strategico: Pechino è ormai dentro il Golfo di Thailandia, e Phnom Penh è la porta d’ingresso.
A completare il disegno è il Funan Techo Canal, mastodontico progetto idrico voluto da Hun Sen come alternativa ai porti vietnamiti. Una nuova arteria logistica nella Belt and Road Initiative, che punta a ridisegnare il bacino del Mekong. Ma anche qui, come nel caso di Ream, il prezzo è alto: tensioni con Hanoi, rischi ambientali e proteste interne.
Il tentativo di bilanciare la presenza cinese con aperture a Vietnam, Giappone e persino Stati Uniti è più simbolico che sostanziale. Ogni esercitazione militare non cinese, ogni visita diplomatica da Tokyo o Washington, è parte di una strategia di hedging destinata a contenere il costo reputazionale del “protettorato asiatico”.
Nel frattempo, la Cambogia ha riacceso i riflettori internazionali con la crisi di confine con la Thailandia nell’estate del 2025. Un’escalation militare apparentemente minore, ma dalle ricadute politiche significative: scontri armati, evacuazioni civili, blocchi commerciali. La narrazione ufficiale cambogiana ha sfruttato l’episodio per rafforzare l’idea della “fortezza assediata”, consolidando il potere di Hun Sen come garante della sicurezza nazionale.
Il contesto interno tailandese, travolto da instabilità politica e da una crisi istituzionale innescata da una telefonata “indiscreta” tra Shinawatra e Hun Sen, ha paradossalmente favorito la leadership cambogiana. Mentre Bangkok vive l’ennesimo scontro tra élite militari e governi civili legati alla famiglia Shinawatra, Phnom Penh si mostra come l’unico attore “prevedibile” nella regione, pur con tutte le sue contraddizioni.
Ma la stabilità cambogiana è solo apparente. L’economia nazionale dipende ancora fortemente dal settore tessile, sotto pressione per i dazi imposti da Stati Uniti ed Europa. La rete di accordi nel quadro del RCEP (Partenariato economico regionale globale) mitiga in parte l’impatto, ma non basta.
La Cambogia cerca quindi nuove direttrici industriali: assemblaggio elettronico, logistica, agroexport. Le Zone Economiche Speciali (ZES) attraggono capitali grazie a fiscalità agevolata e manodopera a basso costo. Ma la vulnerabilità resta alta: bastano un rallentamento cinese o un irrigidimento normativo europeo per provocare uno shock.
Anche la sicurezza energetica è un punto dolente. La domanda cresce, ma la rete interna è fragile e le interconnessioni regionali — con Laos, Vietnam e Thailandia — non bastano a prevenire blackout o colli di bottiglia. Qui si gioca una partita cruciale per la sostenibilità industriale del Paese.
Non meno delicata è la questione della cybersicurezza e della governance digitale. Il sospeso ma mai abbandonato “National Internet Gateway” è una spada di Damocle per lo spazio civico e per l’attrattività tecnologica del Paese. Un suo rilancio scoraggerebbe investitori, mettendo a rischio i timidi passi avanti nell’ICT.
In questo contesto, Phnom Penh ha dimostrato di sapere usare le crisi come leva negoziale. La Cambogia non subisce passivamente le dinamiche regionali: le manipola, le amplifica, le monetizza. Ogni escalation rafforza la posizione di Hun Sen sul piano interno e ne aumenta il valore agli occhi dei grandi sponsor esterni.
La Cambogia del 2025 non è più una semplice pedina. È diventata broker d’instabilità in un’Asia sempre più divisa tra Washington e Pechino. Con un piede nella base navale cinese e l’altro nel canale artificiale che taglia fuori il Vietnam, Hun Sen e Hun Manet stanno giocando una partita ad alto rischio, dove la posta in palio è la centralità strategica della loro nazione. Una strategia sottile, ma pericolosa: perché chi vive sul filo del rasoio, prima o poi, può anche finirci tagliato.
Di Riccardo Renzi