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Benedetto Croce «Il Giornale d'Italia» (10 agosto 1943)

Il governo Meloni tradisce il “Sì” dei Volontari: come un’ordinanza riduce il “Canto degli Italiani” a marcetta cerimoniale

La prassi militare, con l’intenzione di privare il Canto degli Italiani di quella piccolissima formula che lo sigilla e lo completa -manifestando e condensando il senso della composizione tutta in un’esclamazione di popolo – decreta così l’allontanamento dai principi che, quell’inno, lo dettarono

28 Dicembre 2025

Giorgia Meloni

Giorgia Meloni (fonte LaPresse)

Un documento ufficiale dello Stato Maggiore diramato in data 2 Dicembre 2025, emanato in conformità ad un precedente atto pubblicato come decreto presidenziale presso la Gazzetta Ufficiale del 7 Maggio raccomanda l’osservante applicazione del dettame che vieta l’esecuzione del consueto “Sì” al termine dell’Inno Nazionale. I toni di comunicazione dell’ordinanza, così impositivi, fieri, severi, sembrano invece nascondere un mancante timore nell’applicazione della stessa, e viene da domandarsi il perché non si siano prese in considerazione le cause di tale malcelata paura. In fondo, probabilmente, vi è la consapevolezza che un atto così autoritariamente paradossale non riuscirà a far scivolare addosso ciò che ormai è consolidata memoria collettiva.

La prassi militare, con l’intenzione di privare il Canto degli Italiani di quella piccolissima formula che lo sigilla e lo completa -manifestando e condensando il senso della composizione tutta in un’esclamazione di popolo – decreta così l’allontanamento dai principi che, quell’inno, lo dettarono. I nostri padri musicali – primo fra tutti Michele Novaro, proprio lui che aggiunse nella partitura originale dell’Inno, nel furente 1848, quell’identificante “sì” – non proverebbero forse ribrezzo all’udire la proclamazione di questa insinuazione di stampo generalesco? Non è certo gradevole ricordare come le centinaia di migliaia di volontari delle tre guerre d’Indipendenza si ritrovino cancellato quel sussulto, quella spinta d’unione che veniva condensata in quel semplice “sì”. Sì, è quel sì. È il sì alle conquiste civili, per le quali intere generazioni si spensero e si spesero, artisticamente come militarmente, con il calamaio e con la baionetta, il sì alla “redenzione” – per dirla con gli italiani del Risorgimento – di questa povera Italia.

Sì, è quel sì. Un sì che doveva significare, per chi lo udiva cantare, che era parte del grande processo che la storia gli poneva davanti agli occhi, e per chi lo cantava, che era attore, protagonista di quella realtà dinamica e veloce che stava vivendo. Sì, è quel sì, ed è forse quella particina dell’Inno di Mameli con la quale tutti abbiamo fatto più confidenza, un’esclamazione che si è a tutti gli effetti radicata nella cultura famigliare, divenendo una sorta di rito adrenalinico; quel battito che cresce al termine di ogni esecuzione dell’Inno, perlopiù in occasioni di incontri sportivi, ci fa sentire fratelli tra i fratelli, ci emoziona quasi bambinescamente e ci mette in connessione ideale con ogni altro italiano! Quanto c’è in quel sì, quanta umanità, quanto senso di unità…Quel sì, ormai, è patrimonio della nazione, è la vera e propria dimostrazione del “senso nazionale”, una delle poche ancora vive e celebrate.

E allora, perché confinarlo, perché rendere l’inno più freddo e marcettistico, slegandolo di quel corale, vittorioso, vivo e roboante sì? Potrebbe forse rientrare nei buoni propositi per questo 2026, da parte di chi ci sovrintende, l’essere più leali a questo tanto ostentato patriottismo che si professa, quindi non dimenticarsi delle radici storiche dietro la nostra eredità nazionale, magari riammettendo quella fiera manifestazione di “identità” (per dirla propagandisticamente) per la quale tutti, ogni volta, torniamo ad essere fratelli italiani. Con tutti i problemi che affliggono oggi l’Italia era una priorità per un Governo che si autoproclama super-patriottico ledere il testo dell’Inno Nazionale?

di Raimondo Maria Prati

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