30 Ottobre 2025
Meloni e Calenda, fonte: imagoeconomica
Ufficialmente non esiste, nessuno ne parla apertamente, e a Palazzo Chigi smentiscono con fermezza. Ma nei colloqui riservati con i suoi collaboratori più stretti, Giorgia Meloni avrebbe evocato più volte una parola che fino a pochi mesi fa sarebbe sembrata impronunciabile: “Salvin-exit”. L’idea, ancora in forma di suggestione, nasce da una constatazione politica: la Lega non è più un alleato affidabile e rischia di trasformarsi nel principale ostacolo al progetto di “normalizzazione” del governo agli occhi dell’Europa.
Il rapporto fra la premier e il vicepremier è ai minimi. Dietro i sorrisi di rito nelle cerimonie ufficiali si nasconde una freddezza crescente. La Lega è sempre più sbilanciata su posizioni identitarie, tra sovranismo, tensioni sull’autonomia differenziata e la “vannaccizzazione” del linguaggio politico. Troppo, per una Meloni che da mesi lavora per presentarsi a Bruxelles come interlocutrice stabile, affidabile e capace di collocare l’Italia nel cuore del Partito popolare europeo.
Nella sua visione, raccontano fonti vicine al governo, un nuovo equilibrio politico — più centrista, europeista e meno ideologico — sarebbe la chiave per entrare “nella stanza dei bottoni” del potere europeo: quella dove si decidono nomine, fondi e linee strategiche. E il passo preliminare per riuscirci sarebbe proprio liberarsi dell’alleato ingombrante.
Da qui, l’attenzione con cui la premier segue i movimenti di Carlo Calenda. Il leader di Azione è diventato negli ultimi mesi un interlocutore privilegiato: interlocuzioni riservate, toni distesi, convergenze su politica industriale, Pnrr e rapporti con l’Ue. In molti a destra lo descrivono come il “pontiere ideale” per quella che nei corridoi di via della Scrofa viene definita, con un mezzo sorriso, “la nuova Dc meloniana”.
Il calcolo politico è semplice: se la Lega dovesse uscire indebolita dalle regionali del 2026, soprattutto in Veneto, e se Salvini perdesse il controllo del suo stesso elettorato, allora si aprirebbe una finestra.
Un’operazione che avrebbe anche un obiettivo di medio periodo: democristianizzare il governo, renderlo compatibile con la famiglia popolare europea e, di riflesso, preparare il terreno per le grandi partite istituzionali del 2027 — in primis la scelta del nuovo Capo dello Stato.
Al momento, però, tutto resta nel campo delle ipotesi. Salvini, pur consapevole del gelo, non intende cedere. “Giorgia non può fare a meno di noi”, ha confidato ai suoi, convinto che il Nord resti decisivo e che l’autonomia sia una bandiera impossibile da sostituire con il moderatismo centrista. Ma a Palazzo Chigi si ragiona diversamente. “Ogni giorno la Lega diventa meno utile e più ingombrante”, sospira un ministro di Fratelli d’Italia.
La partita è appena cominciata, e il voto sul referendum legato ai temi della giustizia farà da spartiacque. Se Meloni lo vincerà, avrà la forza per ridisegnare la coalizione. Se dovesse perderlo, dovrà ripiegare su un piano B. In entrambi i casi, lo scenario che matura nei palazzi è chiaro: il ciclo dell’alleanza con Salvini è al tramonto. E per la premier, la “Salvin-exit” non è più un’eresia. È un’opzione politica sempre meno teorica.
Di Ghost Dog
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