Federalista o sovranista? Le contraddizioni di una Lega in forte crisi di leadership arrivano a Pontida: Salvini non sprechi l'eredità di Bossi
Conosco la Lega e posso dirle che le voglio persino bene, ma che fine hanno fatto le vecchie lotte a favore del nord delle piccole imprese, di quei cumenda sempre alle prese con i soliti affanni di chi sta nei capannoni dalla mattina alla sera?
Conosco la Lega e posso dirle che le voglio persino bene. Ho diretto per un anno e mezzo la Padania quando Bossi stava male e me lo chiese lui, ispirato da Giorgetti e Maroni, con un sottile filo di voce: non potevo dirgli di no. Io e l’Umberto - il Capo, come si diceva allora in via Bellerio - avevamo un rapporto consolidato, sempre di tipo giornalistico, perché da giornalista varesino avevo visto crescere la Lega e le sue classi dirigenti. E quante Pontida ho raccontato e commentato. Credo di essere uno degli ultimi giornalisti testimone tra il vecchio e il nuovo, tra quella schiera di vecchi colleghi - il compianto Guido Passalacqua di Repubblica (bellissimi gli scambi tra lui e Bossi); Fabio Cavalera del Corriere; Giovannino Cerruti della Stampa - e le nuove schiere digiune di quel leghismo federalista, secessionista, devolutivo e, di contro, imbottite di sovranismo - sovranismo sgangherato, dico col senno di poi - di Salvini, ragazzo di belle intuizioni ma che si è perso sulla strada della elaborazione. Il mio olfatto ha dentro i vecchi odori del vento del nord e i nuovi che non so più bene come definire.
Mi spiego. Salvini è un leghista doc, bossiano di formazione e, non credo di sbagliarmi, di cuore. Matteo ha sacrificato la sua gioventù perché convinto che gli anni più belli coincidessero con la passione della politica e se dovessi fargli vedere le magliette delle vecchie Pontida (che anch’io conservo, come lui) gli si bagnerebbero gli occhi. Ha avuto le sue soddisfazioni, eccome se ne ha avute: proporzionate al sacrificio impiegato. Aveva preso la Lega in una profonda crisi, una crisi totale, se l’è messa sulle spalle perché si sentiva in obbligo di salvare quel partito nato a colpi di ciclostile e secchi di vernice (chi non sa non capirà… pazienza). E l’ha portata a cifre elettorali mai toccate prima, salvando i vecchi e beneficiando i nuovi.
Poi il delirio di onnipotenza: la caduta del governo gialloverde, un governo che ebbe anche le mie impronte digitali non fosse altro perché le due trasmissioni che conducevo - L’Ultima Parola e La Gabbia - erano state un laboratorio sia per il Movimento Cinquestelle sia per quella Lega che cominciava a masticare tesi antieuro e grammatica sovranista. E fu il primo tradimento. Il secondo, poi, fu il peggiore, quello che non perdono a Salvini e ai suoi: il governo Draghi. Ecco, se voti il governo Draghi allora sei disposto a tradire su ogni cosa, certifichi che nulla per te ha un vero valore politico e la tua parola vale zero.
Matteo Salvini e la sua “idea” di Lega è morta lì, parte della maggioranza draghiana. Oggi fa tenerezza il fu Capitano mentre si agita nella compagine di governo, o squittisce davanti alle telecamere della tv israeliana e zampetta simil ragazza pon pon tra Maga e Putin, senza un vero ruolo. (Poi un giorno ci spiegherà perchè - per esempio - contro UniCredit il suo ministro Giorgetti ha esercitato la golden power accusando la banca di Orcel di essere ancora presente in Russia!)
Salvini si è svuotato, non ha più carisma, non ha più nitidezza. E infatti il buon Vannacci, che dei campi di battaglia conosce le asperità e gli odori, sta prendendo le misure al campo di battaglia ed è pronto all’Opa. Un’Opa che Salvini gli ha servito come il più pollo degli scacchisti. Vannacci farà a Salvini quel che Salvini fece a Bossi e alla buonanima di Maroni. E la Lega si infilerà l’ennesimo nuovo abito, un abito che va bene per un elettorato di destra, di una destra social che il Generale ha studiato e addestrato a saltare nel cerchio infuocato. Che beffa per il Capitano.
La Lega dell’Alberto da Giussano diverrà un orpello, ancor più schiacciata rispetto alla scelta - obbligata dalle sentenze - di organizzarsi sotto le nuove insegne di “Noi con Salvini”, genialata di Calderoli, altro leghista di vecchio lignaggio, uomo generosissimo e di grande cultura politica. Che fine hanno fatto le vecchie lotte a favore del nord delle piccole imprese, di quei cumenda sempre alle prese con i soliti affanni di chi sta nei capannoni dalla mattina alla sera? Quando si è spenta l’eco delle sfuriate di Bossi, che proprio a Pontida impastava la sua narrazione tra l’epopea del Carroccio che batteva il Barbarossa a Legnano (ma giurava appunto a Pontida) con le beghe dei palazzi romani, che non volevano mollare nulla a favore di quella che anche il sociologo Aldo Bonomi aveva ben definito come “questione settentrionale”? Tutto archiviato?
Forse no. La resistenza è nelle mani di chi non ha voluto resettare l’epoca bossiana, la sua epica impresa contro il centralismo romano. Tutto dipenderà da quanta voglia avranno Luca Zaia, Massimiliano Romeo, Alberto Stefani (ma quant’è bravo, ‘sto ragazzo?), Attilio Fontana e tutto quel mondo che resiste (nonostante certe figure che Salvini ha messo nelle caselle nobili) di rinnovare lo spirito del giuramento di Pontida, di recuperarne il senso politico come lo decifrò Bossi nella sua migliore stagione. Il Carroccio è a un bivio: o con Zaia o con Vannacci, o con i Capannoni o con la narrazione del “Mondo al Contrario”.
Spero che Salvini, in questa notte che precede Pontida, si ricordi di quando era ragazzino e di quel che ha sacrificato. Non sprechi tutto.
Di Gianluigi Paragone