10 Gennaio 2025
La sanremizzazione di Cecilia Sala, la podcaster che i tiggì romani chiamano “Scesciglia” o anche “Scesci”, è partita molto prima della sua liberazione da una segreta di Teheran, è partita dalle improvvide estemporanee esternazioni fuori palazzo Chigi della madre, questa madamin naturalizzata romana cui hanno subito imposto un provvidenziale silenzio perché come tutti faceva casino, non resisteva alle sirene dei microfoni mentre cercavano di tirarle fuori la fanciulla. Un po' come Lino Banfi al Bar dello Sport. Ma a lui avevano messo la droga nel caffè per fargli confessare il 13. Quella invece si era immediatamente intossicata della notorietà che fa sragionare: “Mia figlia è un'eccellenza italiana, come il vino e il parmigiano”. Eccellenza perché? Perché somiglia a Belen o perché è una podcaster che sarebbe il giornalismo narcisistico che usa oggi? Dopodiché, come era fatale, è partito lo show: quello sbarco all'aeroporto di “Sciampino” trasformato in luna-park! Quella corsa della rediviva in braccio al fidanzato, che risuonava nella testa lo scion scion di Morricone! L'occhio della madre! Ed è chiaro che è solo un debutto, come dicevano i rivoluzionari estetici nel '68: la scesciglizzazione di Scesci procede con la potenza di una superpetroliera perché così vuole questa sciagurata epoca che ha lasciato indietro Debord e le sue intuizioni patetiche sulla società dello spettacolo. Altro che spettacolo, siamo alla mise en scene costante, al disvelamento della finzione che nessuno nasconde anzi tutti rivendicano e più è esagerata, sopra le righe e meglio è. Io, per me, potrei pure fantasticare che il viaggio dela salvezza sia stato speso proprio concordando la posa cinematografica del volo in braccio al moroso, scion scion.
Lei, subito, appena scesa: tante grazie a tutti, torno subito al podcast. Da indurre il sospetto che quelle galere iraniane non fossero poi così debilitanti. Ma bando alle malignità da vecchia carogna, limitamoci a prendere atto che il circo, il “palco osceno”, come diceva Frassica, non può aspettare e una podcaster che coglie l'attimo meno di tutti: facile immaginarsela a Sanremo, tra meno di un mese, magari con un'omelia contro il maschio bianco patriarcale tossico; quindi in processione da Gruber a Vespa, da un salotto all'altro, con le sue verità da raccogliere in un libro istantaneo che prelude alla candidatura, verosimilmente col Piddì stante il background della nostra influencer, la Scesci che è meglio di Fallasci. Tanto è un unico blocco di potere, la candidi tu o la candido io, sono decisioni prese esclusivamente in base al target elettorale e chi entra non si sogna neppure di divergere dalla linea.
Scesci, già più antonomastica che autoreferenziale, è partita sparata: “In prigione mi contavo le dita dei piedi, mangiavo riso lenticchie e carne, ho chiesto la Bibbia ma anche il Corano”, perché il conformismo woke quando ce l'hai dentro non ti molla neanche in condizioni estreme. Scommettiamo che il libro su se stessa medesima gronderà di questo “egoverride”, questo spreco di autoreferenzialità, quest'orgia di autorivelazioni ma rigorosamente senza lo straccio di una riflessione seria, analitica? Non solo per questioni di riserbo istituzionale: è la sensibilità a premere, “il vissuto”, come usa dire. Qui il vissuto è da manuale: bellina, telegenica, già avvezza al protagonismo dei giornalisti, di quella vanità moralistica che non guasta, progressista, benestante, famiglia di qualche peso, padre manager bancario, amico del fondamentale Tajani, eccetera. Anche tra i sequestrati ci sono i figli di, fosse un cognome o un vissuto, e i figli di nessuno.
Io però una intuizione maliziosa o se preferite maligna la vado azzardando: che la detenzione di questa malcapitata ma infine riscattata podcaster si rivela funzionale alla Narrazione con la maiuscola, quella della quale i padroni dell'Agenda dicono: “é l'unica cosa vera e la stabiliamo noi”. Voglio dire che tra questa sciagura felicemente risolta e la sciagura globale della pandemia io scorgo un legame, un rapporto perverso; la storia della detenzione di Scesciglia “podcastata” da Scesciglia, le sue prigioni formato Harmony finiranno per corroborare un'idea di prigionia romanzata, fumettistica e quindi accettabile, condivisibile. Per settimane non si parlerà di repressione tirannica o lo si farà in modo tangenziale, funzionale alle memorie di una che parla delle dita dei piedi, della dieta, dei sospiri, una avventura edulcorata, sdrammatizzata, tollerabile. Fruibile ad uso mediatico. Tutto è bene quel che finisce bene, no?
Ma, come il documentario di Paolo Cassina, “Non è andato tutto bene” e continuerà a non andar bene. Noi da almeno cinque anni viviamo in questa bolla mentale, siamo stati destrutturati, il residuo senso democratico riscritto a considerare peccaminosa, criminosa l'idea stessa di libertà, a far coincidere democrazia con censura, individuo con perversione, scelta con sovversione. Dopo due, tre anni di regime concentrazionario globale, italiano in particolare, ci ritroviamo avvezzi a ringraziare per diritti che ci spettano per legge e invece ci vengono concessi, quando ce li concedono; restrizioni, divieti, obblighi, pressioni, impedimenti anche pazzoidi si moltiplicano: non fumare da solo all'aperto, non guidare la macchina che hai, se la conduci che sia a passo d'uomo, non infilarti una supposta se no rischi la galera, le città come campi di concentramento, le zone rosse dei sindaci progressisti a sostanziare l'idea di quartiere dal quale non uscire, la città concentrazionaria ridotta a blocchi, ai block del lager, ed è un progetto della nuova urbanistica totalitaria in atto da anni; virologi e politici felloni al primo starnuto ricominciano con la solfa delle mascherine e dell'isolamento, della detenzione cautelare a falsi fini sanitari; tutti sappiamo che al potere, di qualsiasi colore e bandiera, non parrà vero di restringere ancora tutti alla prima occasione seria: la hanno accarezzata per i virus più fantasiosi, mucche, porci, galli cedroni, zanzare, scimmie, spore, muffe; ancora rifiutano di operare i pazienti gravi che dissentono; al principale teorico della sudditanza neomedievale, Fauci, il creatore delle “stronzate cui la gente obbedisce”, fuggito dagli USA, abbiamo conferito onorificenze, protezione e un paio di laboratori sperimentali; le nostre istituzioni somme non si sono mai pentite di avere avallato e protetto un regime eversivo, sterile e demenziale; il “tutti dentro” come incubo e prospettiva che molti tuttora ipotizzano se non invocano, la sinistra ringhiando, la destra sottotraccia ma pur sempre memore dei bei tempi in cui un Duce della provvidenza faceva il bello e il cattivo tempo. Mi ha colpito quello che ha detto una turista belga reduce dalla allucinante notte di Capodanno a Milano, il centro, il Duomo nel pieno controllo dei “maranza” spuntati come topi e conversi nel cuore della metropoli come per un misterioso richiamo: “Ci hanno circondato in quaranta e ci violavano sotto i vestiti, sotto le mutandine, non potevamo fuggire, eravamo prigioniere. Una prigione umana, di carne umana. Zuckerberg ha ammesso per la seconda volta in pochi mesi, in contesti diversi ma egualmente inequivocabili, di avere ostruito la libera circolazione delle informazioni e delle idee per mezzo del controllo abusivo affidato a degli scalzacani chiamati fact checker, in tutto il mondo uniti nel lavoro sporco della censura e delle false verità che propalavano fingendo di combatterle: una gabbia totale, un Panopticon, una vergogna infinita, uno sconcio storico, una violazione dei diritti umani su scala planetaria, uno stupro continuo della democrazia. E l'ha ammesso più vantandosene che rammaricandosi: io potevo, io l'ho fatto. Come il Dio di Duns Scoto. Per dire io sono l'editore di fatto di una platea di 3,5 miliardi di utenti-plebe, che ho ingannato e condizionato come volevo e adesso che il padrone è caduto io cambio padrone, mi voto a quello nuovo. Il quale, essendo un affarista, uno della finanza cannibale, insomma un uomo pratico, non avrà problemi ad andarci d'accordo. Quanto a dire il carcere del pensiero, dell'espressione e anche della scienza, omessa, soffocata, mistificata. Senza ceffi del genere provvisti di mezzi del genere, la galera del mondo non sarebbe stata possibile così come non lo sarebbe stata la coercizione perenne ad avvelenarci. E dovremmo sperare nel vento nuovo? Ma se tutto lascia pensare che la logica della detenzione diffusa continuerà, perché il comandamento unico della finanza tecnologica che ha assoggettato la politica e la democrazia è: tutto ciò che si può fare si faccia e una volta fatto è irreversibile.
Noi viviamo da anni assuefatti ad un'idea di libertà condizionata che equivale a costrizione accettata se non attesa; niente ne è esente perché tutto è conforme, è omogeneizzato. Dall'informazione, degenerata in comunicazione, cioè in pubblicità che è il contrario dell'informazione, è menzogna, alla cultura, all'arte (che Facebook regolarmente censura), al dibattito pubblico, alla scienza della quale si ripete “non è democratica” per legittimarne la sfacciata manipolazione del potere, giù giù fino alle trasgressioni conformistiche dei trapper che vanno al Festival della canzonetta di regime. Il giorno prima fanno le filastrocche su come violentare le donne, il giorno dopo li chiamano come difensori delle donne. E ci vanno, sarei pronto a scommettere, con Scesci. Tutto mescolato, enfatizzato, risolto in chiave sentimentale, con l'happy end iconico e narcotico: la corsa strappacore, scion scion, magari spontanea ma imposta come un vaccino contro le inquietanti prospettive dell'umanità: e più non dimandare! “Mia figlia è un'eccellenza italiana” dice la madre di Scesci: la stessa identica cosa che disse a suo tempo il padre di Ilaler Salis, senza ombra di ironia. Tutto mescolato, indistinguibile. Siamo pieni di eccellenze a prescindere, come gli ex Ferragnez, la Chiara che ingannava sui pandori per i bimbi oncologici, il Fedez che si trastulla con gli ultrà criminali. E gli avevano dato l'Ambrogino d'oro per meriti sociali. Sono i nuovi santi, elevati agli altari in quanto strumenti di propaganda. Ma “ci sta”, come dicono gli imbecilli; tutto ci sta se serve a sbarcare in qualche istituzione sovranazionale di stampo repressivo, di quell'autoritarismo per carità non patriarcale ma paternalistico sì.
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