07 Settembre 2023
Mario Draghi, fonte: imagoeconomica
Qualcuno l'ha già definito "il nuovo whatever it takes". Dalle colonne dell'Economist l'ex premier Mario Draghi, molto defilato dopo l'esperienza di governo, è tornato a parlare, e a far parlare, di futuro d'Europa. Lo fa, non a caso, in un periodo molto particolare, a pochi mesi dalle elezioni europee del 2024. Elezioni che, per la prima volta nella sua storia, potrebbero vedere uscire dalle urne un europarlamento di centrodestra-destra. Leggendo secondo la grammatica di Bruxelles: non necessariamente filo-sovranista, ma certamente più simpatizzante di quanti l'hanno preceduto.
Uno stato delle cose che, forse più della Brexit, rischia di mettere in crisi la tenuta della macchina europea: cosa succederebbe se Bruxelles, come è possibile che sarà, venisse conquistata da forze politiche di taglio "meno eurocentrico" rispetto a quanto fossero quelle precedenti? Finora il rapporto tra ramo politico dell'Ue e ramo amministrativo (lo si chiami "burocrazia", "deep state" o "apparati", resta comunque la componente tecnica e non eletta dell'impalcatura europea) sembrava essere idilliaco: entrambi i soggetti, a diverso volume, spingevano per la centralizzazione del potere a Bruxelles. Ma nel 2024? Il timore di un cambio di rotta da parte di uno dei due soggetti, quello eletto, toglie il sonno nel Quartiere Europeo, soprattutto per il corollario che a tale stato dell'arte seguirebbe. Una spaccatura in seno alle istituzioni, una guerra fredda tra palazzi in grado di congelare qualsiasi possibilità di azione, in una fase storica nella quale i dossier che chiedono, implorano, linee certe e decisioni veloci aumentano giorno dopo giorno.
Un bel problema, del quale Draghi tratta dalle pagine del magazine, ironicamente (?), inglese. Lo fa mettendo apparentemente le mani avanti, alcuni osservatori hanno commentato "dettando la linea con alcuni mesi di anticipo". In pratica, gettando acqua sul fuoco di quanti sperano, si aspettano o temono una "rivoluzione sovranista" nel prossimo futuro. Lo fa, com'è tradizione di ogni epoca e luogo per quanti ritengono l'accentramento del potere summa maxima del buon governo, con veloci pennellate nelle quali descrive l'esistenza di crisi con toni a tratti apocalittici: "Oggi l’Europa non affronta più principalmente crisi causate da politiche malsane in questo o quel Paese. Piuttosto, deve far fronte a shock comuni e importati, come la pandemia, la crisi energetica e la guerra in Ucraina: shock troppo grandi perché i Paesi possano gestirli da soli". Draghi, poi, non risparmia una freccia anche ai centristi ad oltranza, sognatori di eterni anni di pre-pandemia e convinti sostenitori del rifiuto all'accentramento bruxellese tanto quanto della ridistribuzione delle autorità alle comunità locali: "Se non si agisce, c’è il serio rischio che l’Europa non riesca a raggiungere gli obiettivi climatici prefissati, fallisca nel garantire la sicurezza che i cittadini le chiedono e perda la sua base industriale, a beneficio di regioni del mondo che impongono meno vincoli. Ecco perché scivolare indietro passivamente verso le vecchie regole fiscali sarebbe il peggior esito possibile".
La posizione che Draghi assume è chiara, da lui stesso esplicitata senza alcuna vergogna attraverso i suoi scritti, la sua carriera, le sue politiche: in una parola, la sua persona. Allo stesso modo è chiaro il peso che parole da lui pronunciate possano avere, non fosse altro che per la loro rarità. Parole che certamente a Bruxelles, la Bruxelles del settembre 2023, saranno accolte con un sorriso un po' annoiato (non si ripete altro da anni), ma che in altre sedi istituzionali potrebbero essere colte con maggiore attenzione. A Palazzo Chigi, magari, dove non solo risiede il Capo del Governo della terza economia del continente, ma anche il vertice di quel Partito Conservatore europeo che, nonostante l'attività di repulisti degli ultimi anni, fa ancora alzare qualche sopracciglio tra i moderati europei, tanto più per la attesa/temuta alleanza con il PPE e la attesa/temuta vittoria delle europee. Meloni, che del premierato Draghi è erede (qualcuno dice non solo cronologica), potrebbe trovarsi tra (immaginarla come protagonista unica sarebbe un po' troppo) gli aghi della bilancia della partita per il volto dell'UE che andrà a giocarsi nei prossimi mesi, e di cui le elezioni sono solo una delle tante manifestazioni, e non è detto che non immagini per sé, o per i suoi conservatori un qualche cambio di marcia.
Se i Conservatori europei dovessero cambiare marcia, se l'alleanza con i Popolari dovesse saltare, se le urne non premiassero il centrodestra-destra, commenta qualcuno, il risultato sarebbe un totale appiattimento sulla linea della centralizzazione. Immediata, troppo rischioso attendere nuove tornate elettorali. Cosa di cui, lo stesso Draghi, molto candidamente, non fa mistero: "Quelle strategie che hanno assicurato la prosperità e la sicurezza dell’Europa nel passato – l’affidarsi all’America per la sicurezza, alla Cina per le esportazioni e alla Russia per l’energia – sono diventate insufficienti, incerte o inaccettabili. In questo nuovo mondo, la paralisi è chiaramente insostenibile per i cittadini, e l’opzione radicale dell’Ue ha dato risultati decisamente incerti. Dar forma a un’Unione più stretta si dimostrerà alla fine l’unica via per assicurare ai cittadini europei la sicurezza e la prosperità che desiderano". Di crisi in crisi.
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