25 Ottobre 2022
Sergio Mattarella, già esponente della sinistra Dc e poi del Partito Popolare, già ministro della Pubblica istruzione (fu lui a introdurre l’insegnamento collegiale alle elementari), già estensore della rima importante legge maggioritaria, già ministro della Difesa e componente della corte Costituzionale, salì al Quirinale con Renzi capo del governo. Era stato proprio il premier fiorentino, anch’egli proveniente dai Popolari, a caldeggiarne fortemente l’elezione. Colui che aveva preceduto Mattarella nella massima carica istituzionale, Napolitano, si lasciava alle spalle otto anni burrascosi: iniziato il mandato col Prodi II, un governo costretto a scendere in trincea sin dal suo insediamento, aveva poi visto una nuova schiacciante vittoria di Berlusconi e del centro-destra. Sembrava ci fossero tutte le premesse per una legislatura “blindata” come quella del 2001-05 senonché, proprio a metà di essa (2010), scoppiò un nuovo caso Follini ma moltiplicato per mille: il divorzio stavolta era con una colonna portante della coalizione, Gianfranco Fini. Un terremoto, devastante sul piano politico come lo era stato a livello geologico quello dell’Aquila dell’anno prima: il governo andò avanti per un altro anno fino a quando, bocciata solennemente dall’Ue la sua legge di bilancio, dovette dimettersi. Mancavano due anni allo scioglimento delle Camere: per evitare le elezioni anticipate, Napolitano pensò di varare il primo governo interamente tecnico della storia repubblicana (in precedenza, tutti gli altri erano stati tecnico-politici o politico-tecnici). Lacrime e sangue, e poi nuove elezioni. Senza nessun vincitore, esattamente come stava avvenendo alle presidenziali, convocate di lì a qualche mese. Di quei giorni inconcludenti è rimasta famosa una battuta di Renzi, ormai prossimo a dare l’assalto alla segreteria del Pd: "Son stati più veloci pochi e anziani cardinali a dare una guida alla Chiesa (dopo le dimissioni coeve di Benedetto XVI, ndr) che una pletora di parlamentari a darla al Paese". La soluzione fu trovata riconfermando Napolitano per un altro settennato. Lui non voleva ma, costretto, accettò. E poi a sua volta costrinse i partiti ad accettare un maxi-governo di coalizione. Guidato da Enrico Letta, il capolavoro vitruviano del capo dello Stato passò poi a Renzi, in seguito a una manovra all’interno del Pd, ormai divenuto renziano.
Poi Napolitano disse basta. A Mattarella lasciava in eredità un’Italia infatuata dal renzismo come lo era stata in tempi diversi del craxismo e del berlusconismo. Ma, abituato com’era a bruciare le tappe, data la sua natura irruenta e irrequieta, Renzi velocizzò anche i tempi del suo declino: la luna di miele con gli italiani finì nel dicembre del 2016, con il referendum che Renzi pensava potesse essere lo strumento per cambiare la Costituzione, d’autorità e senza un approfondito dibattito parlamentare. Alle urne fu un “no” cocente e il premier si dimise, promettendo anche che avrebbe lasciato la politica. Mattarella, rimasto fino a quel momento in sordina, si trovò di fronte al suo primo drammatico bivio: elezioni anticipate o governo di transizione-prosecuzione? Optò per il secondo e diede l’incarico a Gentiloni, gradito a Renzi.
2018: nuove elezioni, musica vecchia, più o meno la stessa delle precedenti, quelle del 2013. Clima neo-proporzionale, con equilibri e schieramenti da formare a risultati acquisiti, voltate le spalle agli elettori. Il M5S continuava la sua ascesa, ma si auto-limitava con un’orgogliosa tendenza all’isolazionismo. Usciva dalla sfida elettorale come il primo partito, ma non aveva i numeri per governare da solo: doveva per forza agganciarsi o alla Lega, che era il secondo partito, o al Pd, il terzo. Mattarella dovette fare come l’ultimo Napolitano e inventarsi una delicata architettura di governo: un asse pentastellato-leghista. Poi gli bastò un giudizio negativo sul nome di un possibile ministro per beccarsi una minaccia di impeachment da parte di Di Maio, allora leader grillino. Ma l’esperimento, dopo qualche tentennamento iniziale, resse, almeno fino a quando un sulfureo Salvini, segretario della Lega, convinto di poter andare a elezioni anticipate e portare quindi il suo partito al timone dell’Italia, escogitò un pretesto per far cadere la baracca. Poco male: piano B. Il Pd e il centro-sinistra al posto della Lega, sostituzione tecnica.
Venne la pandemia, un vento di morte che soffiava dall’est con il sibilo di un fantasma antico, e Mattarella contava ormai i giorni che lo separavano dalla fine del mandato. Bello sarebbe stato, e carico di gloria, pensava lui, lasciare il Colle dopo aver guidato moralmente il Paese alla vittoria sul Covid. Ma la sorte aveva in serbo un colpo di coda: il governo giallorosso, guidato da Giuseppe Conte come quello gialloverde, cadde proprio sulla redistribuzione dei fondi per far ripartire l’economia dopo la fine dell’emergenza sanitaria. Il momento era troppo delicato per tornare alle urne subito, e perdipiù erano proprio alcune forze politiche a premere per una soluzione d’emergenza rappresentata da una figura super partes, di assoluto prestigio internazionale: ora per Mattarella aprire a un tecnico non era più una tentazione, com’era stato Cottarelli nel 2018, ma una necessità imprescindibile. E chi meglio di Draghi poteva dare garanzie per un governo tecnico-politico in grado di assicurare una tenuta sufficiente a chiudere la legislatura? Il capo dello Stato ci mise la firma, tant’è che si parlò di diarchia Mattarella-Draghi. E fu proprio in nome di un binomio che non si poteva sciogliere che l’inquilino del Quirinale accettò, suo malgrado, di non traslocare. Si può pensare che col senno di poi si sia pentito di non essersi impuntato ulteriormente: eppure, quando decise di riassumere il fatidico fardello, la guerra in Ucraina era già scoppiata, e già si era accesa la lotta dentro la maggioranza tra bellicisti e trattativisti, tra filorussi e filoucraini. Non poteva immaginare, quel Mattarella, che proprio in mezzo a quelle lotte la sua amata scelta si sarebbe logorata. O meglio, in mezzo a quelle lotte avrebbe preferito prendere il largo, per non farsi logorare.
Il resto è storia di oggi: ennesime elezioni – elezioni anticipate –, la vittoria di Giorgia Meloni e della destra e il ritorno di una maggioranza politica in grado di reggersi sui suoi piedi. E così Mattarella può abbandonare il ruolo di regista per tornar libero di essere il notaio della Repubblica.
Di Gianluca Vivacqua
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