17 Agosto 2022
Sono le elezioni del 2022 anche per Pier Ferdinando Casini e Umberto Bossi. Per loro, però, la data è semplicemente un numero. Per chi bazzica tra Camera e Senato dagli anni ‘80 l’appuntamento con le urne è una semplice formalità. Una parentesi obbligata e obbligatoria, ormai noiosa, tra una legislatura e l’altra. Casini, 66 anni, ha sempre i capelli bianchi e quel savoir-faire tipico dei democristiani. Bossi, che di anni ne ha 80, stringe ancora il mezzo sigaro tra i denti, ma ha abbandonato da tempo le velleità secessioniste per allinearsi al nuovo corso delle Lega senza il nord nel simbolo. Casini e Bossi. Ah, la prima Repubblica.
Casini è entrato per la prima volta in Parlamento nel 1983. Allora c’erano ancora il Pci, il Psi, l’Msi. E la Dc, il suo partito di riferimento. Alle politiche del 2018 (ma anche questo è solo un numero), l’ex presidente della Camera ha posato lo scudo crociato e ha realizzato l’ennesimo desiderio politico. Bologna. La sua Bologna. Collegio uninominale al Senato. Casini voleva solo quello. E l’ha preso grazie al Pd. Dal centro al centrodestra e dal centrodestra al centrosinistra. Da volto storico della Dc, i selfie di Casini con alle spalle i ritratti di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, il pranzo a base di salsicce e vino bianco alla Casa del Popolo Corazza di Bologna, la rossa Bologna, avevano suscitato il sarcasmo dei suoi detrattori. Lui non ci aveva fatto caso. “Io le ironie le ho sempre accettate, perché nella vita guai a coloro che si prendono troppo sul serio. Il primo che prende in giro Casini è Casini”. E il secondo, amichevolmente, era Matteo Renzi: “Siamo riusciti a far diventare quasi comunista anche Casini”. Quasi. Il 25 settembre il nome di Casini sarà ancora lì, nella lista del Partito democratico, di nuovo candidato al Senato, sempre a Bologna. Casini su Casini.
E Bossi? La prima elezione al Senato, nel 1987, gli costò quel soprannome a vita: senatùr. Resta giusto quello. Le canottiere, l’ampolla di Pontida, la Padania libera, i terroni, il federalismo, Roma ladrona, i comizi accanto a Mario Borghezio, i fazzoletti verdi. Tutto finito. La malattia, poi. L’ha provato. L’ha indebolito. Oggi Bossi osserva disincantato il processo di nazionalizzazione della Lega di Matteo Salvini. Via il nord dal simbolo, ecco i voti al sud. “Secessione! Secessione!”. Non più. Ricordi andati. Felicità a momenti. E paradossi. Alle politiche di settembre, la Lega, con ogni probabilità, candiderà il senatùr alla Camera. Roma sarà pure ladrona, ma trova sempre un posto per il vecchio Umberto. Che continuerà a fumare il suo sigaro e osserverà i movimenti della Lega e della coalizione di centrodestra con un certo distacco. Fuori dalle vicissitudini e dalle logiche di un partito che non è più il suo. Lontano da chi ha accostato Alberto da Giussano a Beppe Grillo da Genova. Distante da chi ha sostenuto Mario Draghi, il più romano dei palazzi romani, insieme col Pd. Non che gli importi molto. “Si dice che il Paese stia andando a fondo, ma io conosco un solo Paese: la Padania. Dell’Italia non me ne frega niente”.
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