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La felicità a Gaza è l’inizio di una speranza: la pace però è un processo più lungo che non è ancora stato raggiunto

Qualcuno pensa che la pace sia una specie di interruttore che si accende e si spegne perché “Basta volerlo e la guerra finisce e c’è la pace”. Il venir meno della guerra non significa simultaneamente avere una pace

09 Ottobre 2025

Gaza, Trump annuncia: "Hamas accetta accordo su fase uno del piano di pace, ostaggi presto liberi, Israele ritirerà truppe"

Fonte: RaiNews

Le immagini che arrivano da Gaza della popolazione in festa sono immagini straordinarie, potenti, che se non vivessimo in una società che sbriciola i fatti mischiandone i resti le conserveremmo a lungo. Ma si sa, questa è la società delle immagini a rullo continuo quindi non resterà granché delle potenti istantanee e dei video di queste ore. Forse ci penserà la Storia a tenerle in memoria: se così fosse significherebbe che davvero queste mediazioni sono cruciali.

La dimensione emozionale che stiamo vivendo (anche le piazze di queste settimane hanno vissuto e vivono di emozioni e ciò non significa che non siano altresì importanti) si ripercuote anche rispetto alla idea di pace che ci siamo messi in testa. A Gaza sanno benissimo che - al momento - non c’è alcuna pace, ma c’è una tregua che consente di respirare, di vedere che la polvere e la terra sollevata dalle bombe e dagli scarponi dei militari si depositi a terra un po’ più a lungo. È una pace di momentanea liberazione e di speranza che qualcosa in più si possa ottenere. Ecco perché la nostra idea di pace - quella che urliamo e proponiamo in piazza, nei cortei e nelle discussioni - non è “pace” ma la sbrigativa proiezione di una incapacità di analisi. Qualcuno pensa che la pace sia una specie di interruttore che si accende e si spegne perché “Basta volerlo e la guerra finisce e c’è la pace”. Il venir meno della guerra non significa simultaneamente avere una pace. Talvolta la pace è presidiata in assetto di guerra: la pace in Europa non è mai stata tanto bene come durante la guerra fredda… La pace è un paziente esercizio politico che non si accontenta mai della mediazione raggiunta. Infine la pace politica non pesa quanto il concetto di pace nella fede e nel pensiero.

Nella Striscia hanno imparato che la pace è come l’andatura in bicicletta: necessita sempre di una pedalata che, per quanto leggera, consenta l’equilibrio. Insomma, la pace non sta ferma e può faticare in salita e correre in discesa (senza perdere il controllo); abbisogna di una forza bilanciata e coordinata; sta in equilibrio se c’è la volontà di proseguire, altrimenti si poggiano i piedi a terra e si ferma il cammino.

Allora se la pace è un’andatura in bicicletta occorre pazienza e tenacia. E la consapevolezza che il primo colpo di pedale è il più importante nel brevissimo tratto ai fini dell’equilibrio ed è il più determinante per sistemare la postura. Quello che sta accadendo in queste ore nello scambio di documenti è dunque il primo colpo di pedale: guai ad accelerare o a strappare; ma che capitombolo se perdessimo l’equilibrio… Vedremo cosa accadrà nelle prossime ore. A Gaza sperano di una speranza impastata di gioia. E ci speriamo tutti, onestamente. Perché ognuno ha soffiato nell’illusione di generare quella spinta discreta di sostegno.

I punti dell’accordo saranno verificati nel prosieguo ma più importante della tenuta dei due attori protagonisti (Israele ed Hamas) è la consapevolezza del blocco di potenze arabe che hanno consentito di legittimare il tavolo delle trattative e non smontarlo. C’è il grande lavoro degli Stati Uniti e di Trump, va ammesso: la sua follia (da Nobel per la Pace?) ha trovato l’incanalatura giusta dove evolvere; il suo piglio da businessman ha trovato accondiscendenza nell’olfatto degli emiri e dei principi sauditi, olfatto sensibile all’odore dei dollari e degli affari. Lo scrivemmo durante il tour trumpiano nel golfo arabo: la dimensione geopolitica è condizione necessaria ma non più sufficiente per stare nella globalizzazione, necessita di una proiezione geoeconomica di pari peso. Piaccia o no entrambi sono gli assi cartesiani fondamentali nelle relazioni internazionali del nuovo ordine mondiale. Che richiede stabilità di relazioni nelle aree interessate; per questo la mediazione e gli accordi per una stabilità nell’area mediorientale stavolta “pesano”.

A qualcuno darà fastidio che valori morali ed etici siano alla mercé di una globalizzazione mercatista, ma se portano ad una tregua duratura e alla stabilizzazione dell’area anche attraverso il riconoscimento (finalmente) dello Stato della Palestina, è giusto ritarare il nostro sistema valoriale (ammesso che possiamo ergerci a paladini dello stesso), perché quella gente non ci chiede autorizzazioni. A dirla tutta, siamo “noi” (un noi che riguarda alcuni in particolar modo) che stiamo “usando” e abbiamo usato la tragedia di Gaza per scopi retorici e propagandistici laddove riteniamo di essere titolari delle piazze di solidarietà ovvero le incaselliamo a sinistra (con la complicità della destra di governo che non ha capito quanti suoi elettori abbiamo partecipato alle recenti manifestazione a sostegno della Palestina); oppure nei casi come la Flotilla, sempre più imbottita di una retorica ormai stucchevole (e non voglio citare il condivisibile pensiero del patriarca Pizzaballa sulla… occasione persa), o come le Albanese di turno e compagni vari che sembrano usciti da un reality di finti naufraghi. Tutte miserie che non lasciano traccia.

di Gianluigi Paragone

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