Gaza, le cinque lezioni che ci può insegnare l'olocausto palestinese: dal pacifismo al non asservimento agli ideali di dominio Usa

Le decine di migliaia di vite umane sacrificate in Palestina non sono vite perdute. Spetta però a tutti noi il compito di dare a questo olocausto un significato durevole

Le decine di migliaia di vite umane sacrificate in Palestina non sono vite perdute. Spetta però a tutti noi il compito di dare a questo olocausto un significato durevole: valido quindi non solo per il presente ma anche per l’avvenire.

È questa la responsabilità che ci impegna tutti d’ora in avanti, se non vogliamo limitarci alle comprensibili reazioni emotive di sdegno e riprovazione: se riversati solo nelle piazze, questi sentimenti corrono infatti il duplice rischio di essere utilizzati per fini di partito, o di svanire non appena nuovamente assoggettati alla quotidianità.

La prima lezione è che, nel primo quarto del primo secolo di questo secondo millennio, è caduto dagli occhi dell’umanità intera il velo di retorica steso dalle potenze che, attraverso l’imperialismo coloniale e la vittoria in due guerre mondiali, dominano dalla fine del XIX secolo il mondo contemporaneo. Parole chiave come libertà, umanitarismo, democrazia, vengono utilizzate per santificare le guerre, per mascherare il dominio attraverso la forza — economica, tecnologica, militare e mediatica, sistematicamente utilizzata dalle grandi potenze dell’Occidente a guida anglosassone.

Da questo punto di vista, Israele non ha fatto altro che dare la dimostrazione più diretta ed evidente di questa logica, applicandola laddove è stato più facile farlo: vale a dire contro un popolo schiacciato da decenni di impiego sistematico della violenza di Stato, ad ogni livello e in ogni occasione, con la complicità della potenza egemone mondiale, gli Usa, nel crescente silenzio di una Europa, sottomessa a quel dominio grazie a due spaventosi conflitti mondiali.

Chiunque non voglia oggi riconoscere, attraverso abili distinguo dialettici, questo dato di fatto, è partecipe e corresponsabile di questa strategia di puro dominio.

La seconda lezione è che le potenze dominanti l’Occidente impongono una loro pace, proprio come ora sta cercando fare il presidente Trump in Medio Oriente, non per ottenere un’equa risoluzione di un conflitto, ma per ampliare e consolidare la propria potenza.

Proprio come quelle del 1919-1920 e del 1945, ottenute con la distruzione fisica e morale dei propri avversari, è questa una pace che prepara nuove guerre, in quanto non risolve le cause del conflitto, ma le utilizza per giustificare un diritto di intervento permanente nelle aree strategicamente più importanti del mondo.

Così come i Quattordici Punti di Woodrow Wilson, i venti punti del piano Trump lasciano infatti indeterminate le questioni fondamentali: in primo luogo il destino del popolo Palestinese, che è la radice profonda di tutto quanto avvenuto in Palestina, dalla Dichiarazione Balfour ad oggi.

Non affrontare con equanimità e senso della storia questo punto, significa nascondere, dietro la roboante retorica della pace eterna, la volontà di difendere propri interessi economici fondamentali e quindi perpetuare il proprio controllo sul Medio Oriente, incuranti della presenza in quelle regioni dei popoli arabo-islamici.

La terza lezione, è che gli organismi internazionali e le cosiddette “regole” che le democrazie occidentali, ispirate dal liberal-capitalismo e dalla prassi del parlamentarismo, hanno imposto con le grandi guerre del XX secolo, dichiarando di affidare loro le relazioni internazionali, si sono rivelate o strumento delle grandi potenze o impotenti assemblee: le loro risoluzioni, rimaste per lo più inapplicate, non hanno avuto alcuna incidenza nel garantire il rispetto delle “regole” proclamate, tantomeno dei principi fondamentali del diritto delle genti.

Oggi quelle assemblee sono vilipese e umiliate dalle stesse potenze che si fecero vanto a suo tempo di averle costituite per legittimare i propri interventi militari, nella prima, nella seconda guerra mondiale, e via via nei successivi conflitti, ogni volta che essi avevano necessità di aggiogare altri Stati al proprio carro del vincitore.

La quarta lezione, è che il potere che regge il mondo contemporaneo è il residuo di una visione del mondo antiquata, superata dall’attuale assetto internazionale. In un mondo reso globale proprio dall’espansione geografica economica e militare dell’Occidente nel corso degli ultimi due secoli, le risorse sono limitate, le interazioni fra i popoli continue, le conseguenze delle scelte di ognuno impattano sulla vita di tutti.

È quindi chiaro che l’impostazione delle relazioni fra i popoli basata sullo sfruttamento, sulla competizione, sulla lotta di tutti contro tutti – ispirata dalla visione malthusiana del mondo e incarnata nella prassi del capitalismo finanziario, non è in grado di garantire ai popoli né pace né sicurezza né giustizia.

I conflitti in essere, dal Medio Oriente all’Europa, dall’Africa all’Asia, sono la quotidiana conferma del fatto che il nostro mondo è diretto da forze retrograde, la cui azione non corrisponde più alle esigenze solidaristiche e collaborative che la complessità dei nostri tempi esige.

La quinta lezione è che, in presenza di strumenti tecnologici di controllo e repressione sempre più pervasivi ed efficienti, le sole possibilità di cambiamento per i popoli possono essere offerte dal ricorso a strumenti e tecniche di disobbedienza civile e non violenza: non solo per questioni di principio, ma per il fatto che il monopolio della forza coercitiva e di controllo degli Stati dominanti, nelle mani di ristrette élite dirigenti planetarie, potrà essere messo in difficoltà, e poi neutralizzato, solo dal movimento pacifico di persone dotate di solide motivazioni, piena consapevolezza e freddo coraggio.

Questo significa anche che simili movimenti, divenuti di massa, non potranno più avere finalità politiche di potere, ma solo ed esclusivamente obiettivi di crescita interiore individuale e collettiva.

Una crescita che può nascere solo in spirito di verità, dal riconoscimento obiettivo delle ragioni storiche del presente; che può essere concretamente sperimentata solo col superamento dei divergenti interessi; che deve costruire nuove forme di organizzazione sociale: organismi sociali finalmente rivolti allo sviluppo delle libere individualità ed insieme rispondenti agli interessi generali dei popoli e dei paesi; società liberate dall’asservimento al dominio del denaro e della menzogna.

Di Gaetano Colonna