Gaza più pericolosa di Marte, la storia di Alaa, la pediatra nella Striscia a cui Israele ha ucciso 9 figli

Il posto più pericoloso per l’uomo non è Marte. Andare sul pianeta rosso, oggi, non è mortale quanto vivere a Gaza

A Gaza, le campanelle di scuola non squillano più.
Tra le pavimentazioni dissestate, ora c’è solo fanghiglia e polvere, la stessa che respira Alaa quando esce di casa per indossare il camice da dottoressa e darsi un ottimistico tono di normalità, anche solo per scacciare mentalmente, per qualche minuto, l’odore della morte e il rumore martellante che dal cielo fa precipitare le bombe.

Lei si occupa di Vita. Sì, perché Alaa al-Najjar è un medico pediatra e lavora all’ospedale Nasser di Khan Younis. Passa le sue giornate a curare i bambini, la possibile speranza che incarna un futuro di riscatto. Anche lei è madre, ne ha dieci a casa. Ed è come sono tutte le madri del mondo anche coi figli degli altri: dolce, premurosa. Non avrebbe potuto scegliere un lavoro più duro là, a Gaza. Lo sa bene. Spesso, nelle stesse corsie dove accompagna il bambino bendato che, ce l’ha fatta, si muove pure una processione di corpicini abbandonati alla vita.

Là si cela la sfida più grande per Alaa, la paura martellante nel petto ogni volta, quando torna a casa e passa tra il fango, la polvere, i rumori assordanti del cielo, fino all’ultimo sospiro, finché non rientra e si sente finalmente chiamare mamma.

Il posto più pericoloso per l’uomo non è Marte. Mentre, a non così tanti chilometri di distanza, ci affatichiamo per raggiungere dimensioni ideali e nuove, alla ricerca di un paradiso extraterrestre, con strumenti scintillanti di un sogno lucido, da questa parte della terra si muore.

Sì, andare sul pianeta rosso, oggi, non è mortale quanto vivere a Gaza.

Alaa lo sa, ma non serve andare su Marte. Dall’altra parte della sponda, per salvare bambini malati si costruiscono cuori d’acciaio. Per tenere in vita chi, la vita la sta abbandonando, si investe in tecnologie sempre più mirate, più attente. Che progresso.

E poi, proprio qua, bambini e uomini in perfetta salute, con tutti gli organi funzionanti, con due gambe danzanti e un paio di occhi vispi, li si annienta così. Polvere. Resti.

Ci sono tre mondi nell’universo di Alaa. Quello di sopra, dei rumori minacciosi che coprono la luna ma dove sa che, ancora più in là, macchine futuristiche sono in procinto di portare l’umanità oltre il proprio limite. C’è il mondo occidentale, quello vicino e assai lontano ugualmente, dove succedono cose belle e le campanelle di scuola squillano.

Poi c’è il suo: Gaza, un posto più pericoloso di Marte. Forse, per lei è più semplice dire cosa non ci sia a Gaza, perché se si concentra troppo sulla realtà, non riesce più a lavorare, si disperaBambini curati, e gli stessi ammazzati il giorno dopo per un bombardamento. Lo stesso corpo che aveva accarezzato, caldo, soffice, il giorno prima, adesso è là, irriconoscibile.

E tutti sanno che il tempo a Gaza, come a Marte, funziona in modo diverso rispetto che nel resto del pianeta terra. Si vive di istanti. Le giornate non valgono ventiquattr’ore, la vita stessa ha un altro sistema periodico a cui è soggetta, come una forza di gravità personale.

Qui, oggi vivi. Oggi, però, muori.

E Alaa lo sa, perché ogni volta che esce di casa non sa se tornerà indietro.

Non sa neppure se sarà tutta intera, se ci sarà un corpo da poter piangere, ancora.

Poi, è successo. Il tempo s’è piegato. Ora si vive, ora si muore.

Alaa era al lavoro, operava bambini.

Nel frattempo, casa sua è stata individuata come uno dei “centri obiettivi” dall’esercito israeliano.

Il cielo torna coi suoi boati. Quella casa sparisce. Adesso è polvere e resti, dopo essere stata altro, per il tempo di prima.

Là ci sono i suoi figli. Anzi, c’erano. Vengono portati subito in Ospedale, mentre Alaa sta lavorando. Anche suo marito è un medico, ma lui è a casa con loro. Nella sua mente si sente meglio: lui si sta prendendo cura di loro, tra poco rincaserà anche lei. Aspetterà di sentirsi chiamare mamma.

Ma è questione di istanti, le passano davanti. Sono corpi carbonizzati, ormai trasfigurati. Ad un occhio di madre, però, serve poco. Basta un bracciale, un orecchino. Basta un vestitino, un dettaglio. Quei corpi sono dei suoi bambini.

Erano dieci figli, Israele gliene ha ammazzati nove.

Yahya, Rakan, Raslan, Gubran, Eve, Revan, Sadin, Luqman e Sidra. Il più grande aveva dodici anni.

Quando Alaa ha pianto, in quelle lacrime, c’era tutto il peccato originale di questo mondo.

Era un obiettivo strategico quella casa? Gli amici della coppia, prima di ogni cosa, lo hanno voluto chiarire: quella famiglia non c’entrava proprio nulla con Hamas. E fa sorridere amaramente che sia stato necessario pure giustificare, come se i colpevoli fossero loro, in stato di difensiva dopo essere stati trucidati, a dover chiarire che quell’attacco fosse avulso da dinamiche geopolitiche.

Persino scrivere, da questo momento in poi, quello in cui il tempo ha cambiato la piega, in cui il vuoto s’è impossessato dei suoi passi tra la polvere delle strade, è difficile.

Non c’è voce sufficiente per coprire il dolore insito e d’insulto di un mondo che se ne vuole andare a Marte, ma si ammazza sulla via per Gaza.

Non ci sono analisi geopolitiche sufficienti né terminologie ipocrite in grado di sussistere.

Questo vuoto, stordimento, è una paralisi del sonno collettiva in cui si trova oggi il mondo occidentale. Ha perso i suoi Dei, ha dimenticato il verbo delle proprie Chiese, s’è rifugiato in scintillanti mondi immaginari e spaziali.

Una paralisi che affligge le istituzioni e le riempie di vivida ipocrisia: chiunque sia nato dopo il ’45 ha la storia contemporanea piantata nella testa come un macigno, s’è visto partecipe di fiere e convegni sulla dignità umana, s’è sentito ripetere che certe atrocità non dovrebbero mai più accadere.

Invece, accadono.

E che senso hanno le ripetizioni ossessive, gli slogan compromessi, di fronte al silenzio che alleggia nelle istituzioni europee ed italiane, che non parlano di Gaza.

E perchè, dopotutto, dovrebbero?

A Gaza, le campanelle di scuola non squillano più.

A Gaza, resta la polvere, resta il fango.

Le voci dei palestinesi sono niente più che un sussurro zittito dal rumore degli attacchi dal cielo.

Le case, come quelle di Alaa, sono un cumulo di macerie.

Così, Gaza può anche sparire. Inghiottita da Marte, dove si muore meno e, dove, si potrà celebrare l’inconsistenza della vita.

Di Vanessa Combattelli