Giallo Rothschild, le rivelazioni sul timore per la vita del giudice, le anomalie e la riapertura dopo 44 anni del caso Monti Sibillini

Il “Giallo dei Sibillini” è tornato a ossessionarci con inquietanti dettagli che sembravano destinati a restare sepolti nell’oblio del tempo

Il “Giallo dei Sibillini” è tornato a ossessionarci con inquietanti dettagli che sembravano destinati a restare sepolti nell’oblio del tempo. A quasi mezzo secolo dalla scomparsa di Jeanette Bishop, già Baronessa Rothschild, e della sua assistente italiana Gabriella Guerin, emergono ombre su ombre, sospetti che pendono come nuvole nere sullo scenario di una tragedia italiana che coinvolge finanza, arte, potere, e forse complicità nebulose. Questa volta a far parlare è una confidenza privata, resa pubblica dopo anni, che getta nuova luce sulla figura di colui che dell’indagine fu punto nodale: il giudice istruttore Alessandro Iacoboni. Franco Maria Venanzi — allora docente di Diagnostica Molecolare all’Università di Camerino, amico e collaboratore nelle analisi sull’identità dei resti — ha raccontato che Iacoboni, durante un viaggio a Londra per le indagini (incluse quelle coordinate con Scotland Yard), gli confidò di sentirsi seriamente in pericolo. Minacciato, diceva. Non si trattava di iperbole retorica, ma di una paura reale, percepita in modo netto. Da professionista rigoroso, non incline allo scandalo, Iacoboni non scherzava con le proprie sensazioni. Questa rivelazione, oltre a essere un elemento umano di rilievo, ha valore investigativo: mostra che chi stava cercando la verità aveva percepito che la verità potesse essere un rischio. Un rischio che spinge a pensare che dietro quelle montagne innevate non ci siano solo condizioni naturali avverse, ma forze che volevano restassero nell’ombra.

Le anomalie che non furono risolte

Già nella sentenza del 1989, Iacoboni parlò di “serie di inspiegabili anomalie e discrepanze” che sfidavano l’ipotesi puramente accidentale. Perché Jeanette e Gabriella, in condizioni meteorologiche proibitive, uscirono lo stesso? Perché salire verso Sassotetto mentre la neve imperversava? E se davvero morirono sul posto, com’è possibile che i resti furono trovati solo dopo 14 mesi, in un luogo impervio ma comunque battuto? Perché le ossa erano state spostate, mancavano elementi, l’auto era parcheggiata con ordine, con benzina, chiusa, senza segni evidenti di lotta? Lo scenario dell’escursione finita male appare sempre più fragile di fronte ai dettagli, ai telegrammi anonimi, al silenzio di chi poteva fornire prove e non lo fece. Nel 2006 il professor Venanzi confermò con test del DNA che uno dei corpi rinvenuti a Podallaera era quello di Gabriella Guerin. Sul corpo di Jeanette, invece, nonostante la certezza per molti della sua identità, la famiglia del secondo marito oppose ostacoli: rifiuto di concedere campioni utili a verifiche ulteriori, come capelli o altri residui. Una resistenza che non è passata inosservata.

Riapertura e responsabilità

La Procura di Macerata, guidata da Fabrizio Narbone, ha formalmente riaperto il caso come possibile duplice omicidio. Dopo anni di archiviazioni — la prima per incidente, la seconda “aperta” ma senza colpevoli — oggi si interrogano testimoni di allora (cacciatori, cantonieri, il geometra che seguiva la ristrutturazione, il professor Venanzi), si analizzano carte, telegrammi, corrispondenze, piste che collegano arte e finanza, collegamenti internazionali. La verità è forse vicina. Ma c’è un prezzo: recuperare tracce ormai sfumate, ricostruire cronologie con dati fragili, contrastare l’oblio naturale che cancella le voci e le prove, anche quelle più minuscole.

Un caso che interroga lo Stato

Non è solo un cold case da cronaca nera. È una ferita del sistema, un problema che riguarda lo Stato e la sua capacità di proteggere investigatori, magistrati, testimoni. Se un giudice può sentirsi minacciato perché indaga su persone collegate al potere internazionale, allora non stiamo parlando solo di misteri lontani, ma di nodi fondamentali per la democrazia: trasparenza, responsabilità, carico investigativo su istituzioni che non possono indagare “solo finché conviene.

E soprattutto, il caso Rothschild ci ricorda che la giustizia non funziona su cronoprogrammi mediatici ma su costanza, coraggio, rigore. Riaprire un’indagine dopo decenni deve servire a restituire verità, non solo suggestioni. La memoria, la scienza forense, il coraggio di chi rischia per denunciare possono ancora disinnescare depistaggi, omissioni, paure. Jeanette Bishop e Gabriella Guerin meritano di più che non essere un enigma. Meritano giustizia. Se il tempo ne ha attenuato i contorni esteriori, i segreti e le omissioni restano vivi. E nel momento in cui emerge che un giudice che voleva semplicemente illuminare una verità si sia sentito minacciato, capiamo che non è un dettaglio: è la conferma che qualcosa di potente, allora come oggi, preferisce il silenzio. Potrebbe essere questo autunno la svolta decisiva. Ma se non lo sarà, il fallimento non sarà solo delle indagini: sarà della nostra idea di Stato.

 

Di Riccardo Renzi