Rinnovo contratto scuola 2025, tra flessibilità, diritti e risorse: la sfida cruciale del governo Meloni per l’istruzione

Il rinnovo del contratto scuola 2025 si sta rivelando uno dei banchi di prova più significativi per l’azione del Governo nel settore pubblico. Dopo anni di ritardi, precarietà diffusa e salari fermi, la contrattazione collettiva è tornata al centro del dibattito politico e sindacale

Il rinnovo del contratto scuola 2025 si sta rivelando uno dei banchi di prova più significativi per l’azione del Governo nel settore pubblico. Dopo anni di ritardi, precarietà diffusa e salari fermi, la contrattazione collettiva è tornata al centro del dibattito politico e sindacale. L’attenzione, in questa fase, si concentra in particolare sul comparto AFAM (Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica), ma le dinamiche in atto coinvolgono tutto il personale scolastico, con ripercussioni profonde sull’intero sistema educativo italiano.

Durante l’ultima seduta presso l’ARAN – l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni – è stata presentata una prima bozza di accordo, che tocca nodi centrali come la gestione dell’orario di lavoro, il trattamento delle prestazioni nei giorni festivi e le condizioni di impiego per alcune figure chiave, tra cui gli accompagnatori al pianoforte e i tecnici altamente qualificati. Una proposta che, seppur limitata al comparto AFAM, fornisce un banco di prova per la contrattazione futura, anche per il personale ATA e docente.

L’elemento più innovativo della bozza è l’introduzione del cosiddetto “orario multiperiodale”: un sistema di distribuzione flessibile del tempo di lavoro che consente di arrivare, nei picchi di attività, fino a 48 ore settimanali, per un massimo di sei mesi consecutivi. L’intento dichiarato è quello di adeguare la presenza del personale alle esigenze reali delle istituzioni, come durante sessioni d’esame, eventi artistici o produzioni straordinarie. Una proposta che, almeno nelle intenzioni, non punta ad aumentare il monte ore complessivo, ma a distribuirlo in maniera più razionale nel corso dell’anno.

Una logica analoga viene prevista per i lavoratori con funzioni di alta specializzazione, il cui orario non sarebbe più rigidamente ancorato alle 36 ore settimanali, ma valutato come media trimestrale, sul modello universitario. Un cambiamento non solo organizzativo ma culturale, che riconosce il valore dell’autonomia professionale e la necessità di conciliazione tra vita privata e carichi lavorativi. Anche gli accompagnatori al pianoforte, spesso sottovalutati ma essenziali nel lavoro accademico musicale, vedrebbero riconosciuta la specificità della loro attività, con un sistema multiperiodale esteso fino a 13 settimane.

Tuttavia, le reazioni dei sindacati non sono state univoche. La FLC CGIL ha espresso forti perplessità, temendo che dietro la flessibilità si nascondano nuovi sacrifici imposti ai lavoratori senza un adeguato riconoscimento economico. La richiesta della confederazione è chiara: nessun aumento di flessibilità senza una corrispondente valorizzazione salariale e contrattuale. E proprio su questo terreno si giocherà la vera partita. Le richieste sindacali includono anche l’introduzione, su base volontaria, della settimana lavorativa corta su quattro giorni, un’idea che trova un certo interesse anche da parte dell’ARAN ma che al momento resta in fase esplorativa.

La UIL RUA ha invece accolto con favore la bozza, considerandola un primo passo per superare un contratto ormai obsoleto, non più adatto alle esigenze del sistema educativo e artistico. Anche la CISL Scuola ha richiamato l’urgenza di concludere rapidamente la trattativa, per poi avviare subito il negoziato per il triennio 2025-2027. In questa fase, però, il vero tema che rischia di far deragliare l’intero processo negoziale è quello delle risorse economiche disponibili.

Il Decreto Scuola recentemente approvato ha stanziato appena 240 milioni di euro per il rinnovo del CCNL. Una cifra che, secondo le sigle sindacali Flc Cgil, Uil Scuola RUA e Gilda FGU, è a dir poco irrisoria. Gli aumenti previsti si tradurrebbero in una manciata di euro netti in busta paga, ben lontani dalla compensazione per la perdita di potere d’acquisto subita negli ultimi anni. In mancanza di un’iniezione significativa di risorse nella prossima legge di bilancio, i sindacati hanno già dichiarato che non ci saranno le condizioni per firmare il contratto.

Le ricadute potrebbero essere pesanti: dalla sospensione della contrattazione integrativa all’interno delle scuole, alla mobilitazione generalizzata del personale, fino al rischio concreto di uno sciopero nazionale nel pieno dell’anno scolastico. Uno scenario che preoccupa non solo i diretti interessati, ma anche le famiglie e gli studenti, già alle prese con le carenze croniche del sistema educativo italiano.

Al fondo di questa trattativa non c’è soltanto una disputa salariale, ma una questione ben più profonda: la volontà – o l’assenza di essa – di riconoscere alla scuola pubblica il ruolo strategico che merita. È in gioco la qualità dell’insegnamento, la tenuta delle istituzioni formative, la capacità del Paese di formare cittadini e professionisti all’altezza delle sfide globali.

La contrattazione in corso, in definitiva, è molto più di una discussione tra tecnici: è lo specchio delle priorità politiche e dell’idea di futuro che si vuole costruire. Se il Governo vorrà davvero rilanciare l’istruzione, dovrà abbandonare la logica dell’emergenza e compiere una scelta netta: investire nella scuola come leva di sviluppo, e non più come voce di spesa da comprimere.

In attesa della legge di bilancio 2026, l’intero comparto resta in bilico tra attese e disillusioni. Ma una cosa è certa: senza un cambio di passo concreto, la firma del contratto rischia di restare un miraggio. E con essa, il rilancio della scuola pubblica.

Di Riccardo Renzi