03 Luglio 2025
Wimbledon Fonte: Fb @Wimbledon
In questi giorni di Wimbledon il mondo del tennis lucida l’argenteria e mostra tutto il suo packaging scintillante fatto di splendidi atleti, club prestigiosi, montepremi ricchissimi e brand del lusso che fanno a gara per conquistare visibilità.
Grattando sotto alla superficie si scopre, tuttavia, un mondo nel quale invece il numero 50 del ranking fa fatica ad arrivare a fine mese (guadagnano tantissimo i top 10, ma poi, tra tasse importanti e viaggi, hotel, allenatore, preparatore atletico, fisioterapista, ovvero tutte cose che i tennisti pagano di tasca propria, restano pochi soldi in mano).
E viene a galla pure un male oscuro, la depressione, che si insinua sempre più prepotentemente tra le pieghe di un dritto o di una volée.
Alexander Zverev, tedesco, ha 28 anni, è alto 1,98, bellissimo, di grande talento, numero 3 al mondo, in carriera ha guadagnato 54 milioni di dollari solo di montepremi (moltiplichiamo il tutto almeno per due con gli sponsor). Eppure, dopo aver perso al primo turno a Wimbledon, ha dichiarato: “A volte mi sento solo in campo. Ho problemi di salute mentale, mi sono sentito così anche dopo gli Australian Open. Sto cercando di trovare un modo per uscire da questa situazione, ma continuo a ricadere negli stessi schemi. Non si tratta di tennis: mi sento solo nella vita in generale in questo momento. Non è bello. Faccio fatica a trovare la gioia fuori dal campo e mi sento molto, molto solo. Non ho mai provato niente del genere. Il tennis non è il mio problema in questo momento. Devo trovare qualcosa dentro di me. Chiederò aiuto? Forse sì. Per la prima volta nella mia vita ne ho bisogno. Ho attraversato molte difficoltà nel corso della mia carriera professionale, ma non mi sono mai sentito così vuoto come ora. Ho perso la gioia in tutto ciò che faccio. Anche quando vinco, non provo la stessa felicità di una volta. Vado a dormire e non ho alcuna motivazione per alzarmi dal letto il giorno successivo”.
Parole che fanno davvero impressione, tenuto conto di chi le sta pronunciando.
Ma Zverev è in ottima compagnia. Anche il campione italiano Matteo Berrettini, ad esempio, sempre dopo la sconfitta al primo turno a Wimbledon 2025, si è sfogato così: “Mi sembrava di dover trovare un altro modo per scendere in campo e godermela, ma è diventato tutto molto pesante. Il mio team pensava che tornare qui (a Wimbledon, ndr), in un posto così speciale per me, mi avrebbe aiutato a sentirmi meglio. Ma non è stato così. Devo prendermi qualche giorno e pensare ai prossimi passi. Forse sono un po’ stanco. Stanco di dover sempre rincorrere qualcosa. Per questo dicevo che devo prendermi qualche giorno per capire cosa fare. Stare in campo così non è quello che voglio. Forse mi sono rotto, per tutto quello che è successo prima. Troppe volte ho sottovalutato la parte mentale, dando più importanza al fisico e al rientro, trascurando come mi sentivo dentro. Alla fine siamo ragazzi, persone normali messe davanti a decisioni, momenti da gestire, e non è semplice quando c’è la competizione. Senza creare allarmismi, ma può capitare di sentirsi stanchi e avere bisogno di tempo per riflettere”.
E d’altronde lo stesso Jannik Sinner, pochi giorni fa, nello spiegare l’improvviso licenziamento del suo preparatore atletico e del suo fisioterapista, commentava che “non è successo nulla di grave, anzi. Ma a volte non mi sentivo a mio agio, ci sono un po’ di cose che non mi andavano. La parte più importante è sempre quella mentale”.
Stefanos Tsitsipas, altro adone greco da 1,93 di altezza e 35 milioni di dollari incassati di soli montepremi, è in piena depressione: “Il mio corpo è diventato fragile e ho iniziato a combattere una guerra per sentirmi in salute. Mi sento come se avessi esaurito tutte le risposte. C’è un limite a tutto e nei prossimi mesi farò una scelta definitiva, in un senso o nell'altro. Per come sto non ha senso competere. Se non stai bene la vita da tennista diventa un inferno”.
In questa valle di lacrime che sta diventando il tour professionistico del tennis non poteva mancare il tocco femminile. Lucia Bronzetti, campionessa italiana, proprio a Wimbledon ha sottolineato come “avevo perso la felicità nel fare questo sport che è la mia passione, oltre il mio lavoro. Le colpe stanno nella pressione che mi sono messa addosso da sola, non mi sentivo più libera e non mi divertivo più. Ero completamente bloccata. I primi segnali c’erano stati quest’anno aMiami, anche se avevo superato un turno. Non gli ho dato peso, ma a Madrid, malgrado la bella vittoria sulla Osaka, ho continuato a non sentirmi bene, non ero così felice della vittoria come avrei dovuto essere. Poi a Roma c’è stato l'apice e da lì è andata sempre peggio. Uno cerca sempre di farsi vedere forte, è difficile esprimere le proprie debolezze. Ma io sono fortunata perché ho una famiglia che mi sta molto vicino, non mi mette pressioni e vuole solo che io stia bene e sia felice”.
E di esempi, purtroppo, ce ne sono a bizzeffe. Adrey Rublev, tennista russo, ha confessato: “Puoi avere tutto nella vita, una famiglia e una relazione sana, tutte le cose materiali, ma se c'è qualcosa che ti sta succedendo e che non vuoi vedere, non sarai mai felice. Se ne prendi coscienza e lo accetti, ti sentirai sempre meglio. Non capivo che senso avesse vivere. I pensieri nella mia testa mi stavano solo uccidendo, creando molta ansia, e non riuscivo più a gestire la situazione. Tutto torna all'essere onesti con sé stessi. Quando qualcosa ti innesca e ti rende emotivo, aggressivo o stressato, è qualcosa di profondo dentro che non accetti. Una volta che sei onesto, cambia tutto. E forse ora sono più gentile con me stesso”.
Da brividi le dichiarazioni di Emil Ruusuvuori, tennista finlandese ex numero 37 del mondo, che si è assentato dai campi da gioco per circa 6 mesi a causa di alcune problematiche piscologiche che l’hanno colpito: “Negli ultimi dieci anni la mia vita è stata molto costante. Pensavo sempre alla prossima partita, al prossimo torneo. Tutto era in movimento, ma all’improvviso non c’era più niente. Non stavo più competendo in campo, anzi stavo lottando per alzarmi dal letto. A essere onesto, mi sono anche chiesto se volessi davvero vivere. E ancora peggio è stato vedere come tutto ciò abbia colpito le persone a me più vicine. Sono riuscito a realizzare il mio sogno, quello di diventare un tennista. Proprio perché ce l’ho fatta, pensavo che avrei dovuto fare di tutto per continuare. Non parlavo dei miei problemi mentali perché li vedevo come una debolezza. E forse è proprio questa la parola chiave. Per me, nello sport, non dovevano esistere, e mostrare vulnerabilità significava non essere abbastanza forte. Se la mia storia aiuterà anche solo una persona, allora sarà valsa la pena. La mia speranza è che la gente capisca che bisogna prendersi cura della propria mente e di sé stessi. Questo è fondamentale. Se non stai bene, non c’è niente di più importante che aiutare te stesso. Non tenerti tutto dentro”.
Lontani, insomma, i tempi di Adriano Panatta o Ilie Nastase, in giro a conoscere il mondo, a divertirsi, guadagnando infinitamente meno, ma con una leggerezza, una gioia di vivere, una spensieratezza ora inapplicabili ai rigidi schemi di uno sportivo professionista. Come spiegano molti mental coach, ora per emergere è necessaria una vita quasi ascetica ed estremamente noiosa: alimentazione rigidissima, mezza giornata di allenamento, mezza giornata a fare nulla, almeno 8-9 ore di sonno. Nella maggioranza dei casi, peraltro, parliamo di ragazzi a bassa scolarizzazione (iniziano a girare il mondo a 12-13 anni), privi di interessi e di passioni. Hanno un focus esclusivo sulla performance e vivono le troppe ore libere della giornata nel mondo ossessivo e virtuale dei giochi, dei social, ovvero in ambienti che alimentano la solitudine e sentimenti come la paura e l’estraniamento. I terapeuti, comunque, invitano a esaminare con attenzione caso per caso: la depressione delle star dello sport è stata in qualche modo sdoganata da qualche anno (ricordiamo i casi di Gigi Buffon, Josip Ilicic, Naomi Osaka, Simone Biles, Nick Kyrgios, Adam Peatty) e ora da tabù rischia di trasformarsi in alibi.
Alla fin fine, forse vince l’approccio scanzonato del tennista kazako Aleksandr Bublik: “Odio il tennis con tutto il mio cuore. Se potessi guadagnare la stessa cifra facendo altro, non giocherei nemmeno per sbaglio. Giocare sempre lo stesso colpo è noioso. Se sono annoiato, perdo. E allora preferisco perdere divertendomi”.
Di Claudio Plazzotta
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