12 Giugno 2025
fonte: pixabay
Viviamo in un’epoca dominata dalla logica della prestazione. Ogni ambito della vita – lavoro, relazioni, tempo libero – è colonizzato da aspettative di efficienza, successo e perfezione. La quotidianità è una corsa incessante, fatta di impegni, notifiche, richieste e obiettivi da raggiungere, in cui raramente ci si ferma a respirare, riflettere o ascoltare sé stessi.
Nel film Limitless (2011), una pillola immaginaria permette al protagonista di accedere al 100% delle sue capacità cognitive, rendendolo infallibile. Sebbene sia una finzione narrativa, essa simboleggia un desiderio molto reale: potenziare la mente fino a superarne i limiti naturali. Nella realtà, invece, ci confrontiamo con una pressione invisibile ma incessante che ci spinge a funzionare senza sosta, con conseguenze spesso devastanti per la salute mentale.
In psicologia, si parla di overload cognitivo quando la quantità di stimoli supera la capacità del cervello di elaborarli. Per proteggersi, la mente attiva meccanismi come la rimozione selettiva o la dissociazione funzionale: si vive senza una vera presenza emotiva, si agisce senza consapevolezza, si interagisce senza risonanza. Nel tempo, questo porta a un profondo senso di alienazione, a vivere “a metà”, svuotati di senso.
Uno degli aspetti più drammatici di questa condizione è la perdita di contatto con sé stessi. Molte persone si adattano alle aspettative altrui, sacrificando i propri valori autentici e i desideri più profondi. La vita così diventa funzionale, ma non sentita, apparentemente piena ma interiormente vuota.
A questa realtà si aggiunge una testimonianza significativa raccolta da Bronnie Ware, infermiera palliativista australiana, che ha identificato i cinque rimpianti più comuni delle persone prossime alla fine della vita:
1. Vorrei aver vissuto una vita fedele a me stesso, non quella che gli altri si aspettavano da me.
2. Avrei voluto lavorare di meno.
3. Avrei voluto avere il coraggio di esprimere i miei sentimenti.
4. Avrei voluto restare in contatto con gli amici.
5. Avrei voluto permettermi di essere felice.
Questi rimpianti sottolineano quanto, alla fine, non siano il denaro, il potere o il successo materiale ciò che conta davvero, ma piuttosto la qualità delle nostre scelte esistenziali, il coraggio di vivere in coerenza con i propri valori e il valore delle relazioni autentiche.
L’esperienza clinica e professionale conferma che molte persone sperimentano, anche in età giovanile o adulta, la frattura tra chi sono e chi sentono di dover essere, sotto il peso delle aspettative sociali e personali. Questo spesso si traduce in un vissuto di disconnessione, isolamento emotivo e insoddisfazione profonda.
Da qui nasce una domanda urgente: perché continuiamo a costruire una società che alimenta questi rimpianti anziché prevenirli? Perché non investiamo in modelli sociali, culturali ed economici che promuovano il benessere psicologico, la libertà di essere sé stessi e la qualità delle relazioni umane?
La risposta forse è da cercare nella nostra assuefazione a ritmi frenetici e a valori legati esclusivamente alla produttività e al successo materiale. Ma la mente umana non è progettata per sostenere una pressione costante senza pause, riflessione e integrazione emotiva.
È fondamentale restituire al discorso pubblico un messaggio chiaro: la mente ha bisogno di cicli, di pause, di rispetto per i propri ritmi e bisogni. Non serve potenziarla artificialmente, ma comprenderla e tutelarla, per poter vivere pienamente e in armonia con sé stessi e con gli altri.
Se è vero che, alla fine, ciò che rimane sono i legami vissuti e le emozioni autentiche, allora è tempo di riconsiderare le nostre priorità collettive e individuali. Solo così potremo costruire una società più sana, più empatica e meno incline al rimpianto.
di Edoardo Trifirò, Psicologo Clinico e Consulente in Sessuologia
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