13 Marzo 2023
Fonte: Pixabay
Nell’ultimo periodo, diversi studi e ricerche hanno fatto luce su un dato di fatto inequivocabile riguardo alle tesi sostenute durante la pandemia dalle autorità e dai media mainstream: molte di quelle che venivano spacciate come verità indiscutibili non reggono alla prova dei fatti. Analizzando i dati attualmente a disposizione, infatti, ci si accorge che i temi specifici interessati dal fenomeno sono davvero tanti, al punto che risulta ormai impossibile non notare come le autorità, così come i giornali destinati al grande pubblico, abbiano presentato come verità insindacabili tutta una serie di teorie che si sono poi rivelate tutt’altro che inattaccabili se non false.
Nelle prossime righe, dunque, verranno riportati tutti gli argomenti tipici della narrazione pandemica che di fatto si stanno progressivamente sgretolando, con l’obiettivo di far comprendere al lettore quanto le presunte verità della stessa stiano divenendo sempre meno difendibili a spada tratta.
Un tema da cui non si può non partire è quello dell’immunità naturale. Tramite i provvedimenti adottati nel periodo pandemico, infatti, le autorità hanno indirettamente sottolineato come l’immunità indotta dal vaccino fosse più efficace di quella naturale, o quantomeno questo è ciò che sembra doversi intendere: basterà citare il D.L. n. 52 del 22 aprile 2021, convertito con modificazioni dalla L. n. 87 del 17 giugno 2021, con cui venne introdotto l’utilizzo del Green Pass, il quale in seguito alla vaccinazione aveva validità di un anno mentre in seguito a guarigione aveva validità di sei mesi.
Una decisione che sostanzialmente equivaleva a considerare il doppio più efficace l’immunità fornita dalla vaccinazione rispetto a quella naturale, cosa che come vedremo si è rivelata essere non vera. In tal senso, da citare è soprattutto uno studio pubblicato il 25 ottobre 2022 sul Journal of Clinical Medicine, trattandosi di uno dei lavori sull’immunità naturale da Covid-19 più completi di sempre. Per realizzarlo sono stati analizzati 246 articoli scientifici relativi alla letteratura Covid-19 pubblicata da aprile 2020 a luglio 2022, e ad essere emerso è – tra l’altro – il fatto che la stragrande maggioranza degli individui, una volta guariti dal Covid-19, sviluppa un’immunità naturale efficace nel tempo e che fornisce protezione sia contro la reinfezione (anche in caso di varianti) che contro malattie gravi, mentre l’immunità indotta dal vaccino è risultata decadere più velocemente di quella naturale. Nello specifico, infatti, gli anticorpi protettivi e le cellule della memoria immunologica sono stati trovati in molti studi con follow-up da 12 a 18 mesi dopo la guarigione, e la loro presenza è stata dimostrata ancora più prolungata con l’allungamento dei tempi di osservazione: in particolare, una ricerca svedese con un follow-up dopo l’infezione naturale fino a 20 mesi ha mostrato un tasso di protezione del 95% dall’infezione e dell’87% dall’ospedalizzazione, in coloro che non hanno aggiunto vaccinazioni, mentre la protezione indotta dal vaccino è risultata molto buona dopo i primi 14 giorni ma tendente a diminuire rapidamente nei mesi successivi, quasi scomparendo circa cinque mesi dopo la seconda dose.
In generale, sembra che l’infezione da SARS-CoV-2 abbia fornito una protezione maggiore rispetto a quella offerta dal vaccino monodose o doppia/tripla: eppure, in base del provvedimento sopracitato, trascorsi sei mesi i soggetti guariti si dovevano sottoporre ad una dose del vaccino per prolungare la validità del Green Pass nonostante, come visto, fossero già immunizzati. Per coloro che non volessero fidarsi di un singolo studio, che però come spiegato è uno dei più completi di sempre sull’immunità naturale da Covid-19, bisogna specificare che non si tratta di certo dell’unica ricerca arrivata a conclusioni simili. Proprio il mese scorso, infatti, sulla rivista The Lancet è stato pubblicato uno studio, precisamente una revisione sistemica nonché una meta-analisi, il quale suggerisce che il livello di protezione offerto dall’infezione è “almeno altrettanto alto, se non superiore” a quello derivante da due dosi di vaccino Pfizer e Moderna, e questo nonostante “la protezione dalla reinfezione diminuisca nel tempo”.
Dopo aver incluso un totale di 65 studi provenienti da 19 paesi diversi, dalla ricerca è infatti emerso che la protezione contro la reinfezione “è diminuita nel tempo”, e mentre da un lato per le varianti pre-omicron pur diminuendo è rimasta “elevata” anche a 40 settimane dall’infezione (78,6%), dall’altra la già inferiore protezione contro la reinfezione da variante omicron BA.1 è “diminuita più rapidamente nel tempo” (36,1% a 40 settimane dall’infezione). Nonostante ciò, però, “la protezione contro le malattie gravi è rimasta elevata per tutte le varianti, con il 90,2% per le varianti ancestrali, alfa e delta, e l’88,9% per la variante omicron BA.1 a 40 settimane dall’infezione”. È per questo, dunque, che nello studio si legge che “l’immunità conferita da un’infezione passata dovrebbe essere soppesata insieme alla protezione derivante dalla vaccinazione nel momento in cui si valuta il futuro carico della malattia da Covid-19”.
Una delle più importanti tesi che ha caratterizzato la narrazione pandemica e che è sempre stata presentata al pari di un’indiscutibile verità, è quella secondo cui le mascherine avrebbero impedito o comunque ridotto notevolmente la trasmissione del virus. Ebbene, anche tale teoria sembra ormai difficilmente reggersi in piedi, o quantomeno pare inconcepibile continuare considerarla come un’incrollabile verità. Nello scorso mese di gennaio, infatti, è stato pubblicato uno studio comparato ampio e rigoroso condotto per Cochrane – un’organizzazione no profit britannica considerata il punto di riferimento per eccellenza della revisione dei dati sanitari e degli studi scientifici – che ha letteralmente demolito le presunte certezze finora avutesi sulle mascherine.
Non vi è alcuna evidenza scientifica sul fatto che indossare le mascherine riduca la diffusione delle malattie virali, incluso il Covid-19: è questo ciò che sostiene lo studio, che rappresenta la versione aggiornata dello studio comparato già pubblicato nel novembre del 2020 e che conferma peraltro ciò che è stato chiaramente osservato negli Stati Uniti, con gli Stati che hanno imposto l’obbligo di mascherina che non hanno ottenuto risultati migliori, in termini di riduzione dei contagi, rispetto a quelli che non l’hanno fatto. Di conseguenza, sembrerebbe che l’imposizione dei dispositivi individuali delle vie respiratorie sia stata inutile se non fallimentare, e dunque non a caso il principale autore del lavoro – l’epidemiologo di Oxford Tom Jefferson – ha precisato in un’intervista: "Non ci sono prove che [le mascherine] facciano alcuna differenza. Punto". Dichiarazioni alquanto rilevanti, soprattutto se si considera che si basano su 78 studi controllati randomizzati, sei dei quali condotti durante la pandemia di Covid-19, e che secondo l’autore nemmeno il tipo di mascherina impiegata, N95 o FFP2, risulta determinante ai fini del contenimento dell’infezione. "Non fa alcuna differenza, niente di tutto ciò", ha infatti affermato Jefferson, il quale ha poi spiegato come durante la pandemia Cochrane abbia voluto ritardare di sette mesi la pubblicazione dello studio nell’intento di "minare il nostro lavoro". Sette mesi che sarebbero stati "cruciali", trattandosi del «periodo durante il quale la politica è stata convinta circa la necessità dell’uso della mascherina»: una convinzione che, secondo l’autore, si sarebbe basata su «studi non randomizzati, studi osservazionali imperfetti».
Ad ogni modo però, pur volendo sorvolare su tale fondamentale aspetto, ciò di cui da tempo si può essere praticamente certi è il fatto che – al contrario di quanto emergeva dalle decisioni politiche adottate – l’obbligo di utilizzare le mascherine fosse inutile soprattutto all’aperto. Come già sottolineato in un articolo di approfondimento de L’Indipendente del maggio 2022, infatti, nel corso del periodo emergenziale in diversi paesi tra cui l’Italia si è insistito sull’obbligo di indossare le mascherine anche all’aperto nonostante diverse ricerche avessero dimostrato che non vi fosse una reale necessità di utilizzarle all’esterno. Basterà citare uno studio risalente all’aprile 2021 dell’Health Protection Surveillance Centre (Hpsc), l’ente che monitora la situazione epidemiologica in Irlanda, dal quale era emerso che solo un caso di Covid su mille fosse riconducibile ad un’infezione avvenuta all’aperto. A ciò si aggiunga che nel 2021 il Centers for Disease Control and Prevention (Cdc), l’agenzia governativa di controllo sulla sanità negli Stati Uniti, aveva ammesso che le misure imposte per l’utilizzo delle mascherine all’aperto si fossero basate su studi sbagliati e su stime completamente inesatte, nonché che i dati disponibili supportassero l’ipotesi secondo cui il rischio di trasmissione all’esterno fosse alquanto basso.
Per leggere le restanti 6 "verità" smentite, scarica qui il pdf completo.
di Raffaele De Luca
Fonte: L'indipendente
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