08 Novembre 2025
È un’antica abitudine della sinistra europea quella di cercare, con ansia quasi messianica, un modello straniero da imitare. Dalla Spagna di Zapatero alla Grecia di Tsipras, fino all’America di Obama e oggi a Zohran Mamdani, ogni stagione ha avuto il suo idolo, ogni sconfitta la sua redenzione promessa. Ma il problema, ancora una volta, non sta nei modelli: sta nel vuoto politico e ideale di chi li rincorre.
Il “campo largo” italiano, smarrito in un lessico da marketing più che in un linguaggio di lotta, si aggrappa a figure simboliche senza comprenderne il contesto. Mamdani trionfa a New York perché incarna un populismo civico, radicato nel territorio e nella rabbia sociale. In Italia, invece, il progressismo si fa elitarismo di quartiere, tra festival di sinistra, bio aperitivi e citazioni di Gramsci filtrate da Instagram.
L’illusione che basti un nuovo volto per rigenerare un intero fronte politico è la stessa che portò a guardare a Macron come al salvatore europeo: un liberale travestito da riformista, adottato per disperazione più che per convinzione. Ora la sinistra riparte — si dice — ma da dove non è mai davvero partita: da se stessa.
Un tempo esistevano dirigenti come Di Vittorio e Berlinguer, che conoscevano il popolo e ne parlavano la lingua. Oggi restano slogan e conferenze stampa. E mentre negli Stati Uniti si vince credendo in qualcosa, qui si continua a perdere cercando un centro che non esiste.
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