06 Aprile 2024
Mi hanno sempre chiesto in questi mesi di massacro: ma perché fai tutto da solo, perché non ti unisci a qualche comitato di vittime dei vaccini? E la risposta era semplice: perché non credo a queste istituzioni, questo spontanesimo che poi tale non è, pieni di ottime persone i comitati ma troppo pieni anche di gente tentata dal demone politico. Ieri il tribunale dei ministri, istituito apposta, ha mandato assolto Speranza da tutte le accuse, omicidio, avvelenamento, falso, e subito la grancassa mediatica si è rimessa in moto, lo ha dipinto come un martire. Dei novax, quando se mai ad inseguirlo per tutta Italia quando si fa vedere insultando le sue stesse vittime, sono i vaccinati, sono quelli che, come il sottoscritto, avevano ceduto al ricatto, magari non fidandosi ma neppure credendo sarebbero arrivati a tanto: assistevo l’altra sera al docufilm nuovo di Paolo Cassina, “Non è andato tutto bene”, scorrevano le immagini delle città ridotte a lande desertiche, bottini di una guerra dichiara dal potere ai suoi stessi cittadini, scorrevano le diapositive di una memoria atroce, spaventevole e pensavo che abbiamo assorbito tutto ma difficilmente potremo comprendere a fondo cosa ci hanno fatto: e perché non siamo in grado, e perché preferiamo rimuovere, come il tribunale dei ministri. Adesso i vari comitati si sdegnano e si costernano: “siamo morti un’altra volta”. Ma perché, confidavano in qualcosa di diverso? Forse i precedenti li incoraggiavano? Quando mai lo Stato può permettersi di processare davvero se stesso? Le prove su Speranza e gli altri sono lì, talmente evidenti che neppure osano contestarle, se mai cercano di stravolgerle alla luce della necessità e del fatto compiuto, per dire quel che è fatto è fatto. Ma condannare Speranza avrebbe voluto dire condannare da Mattarella fino all’ultima infermiera influencer e questo uno Stato, specie se italiano, non se lo può permettere. Nessuno che ne incarni il potere può: avete forse sentito un fiato dalla presidente del Consiglio Meloni, che promette altrimenti tutela di giustizia? Lo avete sentito dal solitamente garrulo onorevole Galezzo Bignani, che ancora promette una commissione d’inchiesta che è già farsa, nata come farsa?
Condannare Speranza e per estensione un regime avrebbe anche voluto dire proibire per il futuro comportamenti analoghi; rimandarlo assolto, riabilitarlo viceversa significa lasciare mano libera per tutto quello che vorranno farci in futuro. E ce lo faranno. L’unica certezza è questa, poi le aspettative sulla giustizia degli uomini e se mai del Cielo, sono patetiche. Sì, è vero, hanno ucciso un’altra volta le vittime, le Camilla Canepa, i Giuseppe de Donno, e tutti quelli morti di colpo o di turbo o ammalati a vita: non era lecito né razionale aspettarsi altro. Io non credo a comitati e movimenti, che di solito vanno a parare altrove, e non credo alla giustizia degli uomini più che a quella di Dio. Tutto è privo di giustizia e dunque di senso. La mattina dopo la anteprima di “Non è andato tutto bene” sono tornato nel quartiere dove sono cresciuto, Lambrate, e, spossato come sempre da che faccio la chemioterapia, mi sono accasciato su una panchina di quella piazza Gobetti dove avevo sfiorato la felicità in un pallone e quattro amici: le panchine erano le porte, il nostro calcetto aveva per scopo infilare la palla sotto la panchina avversaria. Pomeriggi di epica polverosa e stracciona, di quelli che non passano più nella vita. Da 40 anni io rimpiango Milano, rimpiango Lambrate e rimpiango quelle panchine. Ci torno come un cane che torna nei suoi luoghi, e se un Dio ci fosse non potrebbe non avere avuto pietà di me in 40 anni. Eccomi, sono qui, accasciato sulla panchina, sconvolto da ricordi come una bandiera sotto la tormenta. E i ricordi di quelle partitelle si confondono ai flash di un cancro che da otto mesi non mi lascia un tramonto, che non mi ha risparmiato niente. Dolore, paura, disperazione e sempre questa stanchezza maledetta, questa stanchezza atroce che rende impervio perfino respirare. Eppure questo impegno nel raccontarmi per raccontare, nel non rinunciare a svelarmi, e quindi sentirmi, malato, più malato. Venire raggiunto da altri come me, testimoniare per loro, urlare per tutti loro, magari dal fondo di un letto, perché non c’è più vita nelle gambe, quella della chemio non è stanchezza, e non si cura col riposo. E me la sono meritata grazie a Speranza, a Mattarella, a tutti quelli che mi dicono che mi hanno salvato, che sono un novax, che se ho un cancro loro non c’entrano, sarà la mia genetica, sarà Dio che non mi rivoleva a Milano. Ripenso, rivivo. Le mie gambe senza vita, e mi rivedo che scalcio, dribblo, tiro, centro la panchina, esulto coi miei amici. Sono il fantasma di me stesso e il fantasma senza corpo si stende sul mio corpo senza vita. Fa male. Schiaccia, se potessi mi sdraierei sulla panchina come fanno i barboni. Troppo di tutto, e tutto inutile.
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