01 Giugno 2021
luigi di maio (foto LaPresse)
Fuori dal Palazzo si grida onestà. Dentro il Palazzo, invece, si sussurra. E dentro quel palazzo, Luigi Di Maio da Pomigliano ha dimostrato di volerci e di saperci stare. Ministro del "governo del cambiamento", miseramente naufragato tra aperitivi di troppo al Papeete e inquietanti visite istituzionali ai gilet gialli francesi. Ministro del governo giallorosso, quello della normalizzazione. E ancora ministro del governo Draghi, quello che i suoi compagni di partito (già, perché il Movimento Cinque Stelle è diventato a tutti gli effetti un partito. E non è un insulto nonostante quello che pensano diversi suoi elettori nonché componenti) avrebbero (e hanno) definito "governo dell'establishment".
Ecco, Di Maio sta completando la mutazione genetica di quel coacervo di populismo giustizialista dei tempi del "vaffa day" in una forza politica della cosiddetta "stanza dei bottoni". L'ultimo step di questo processo è la lettera, recapitata al quotidiano Il Foglio, con la quale Di Maio si è scusato per la gogna mediatica riservata a suo tempo all'ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, bersaglio del giustizialismo grillino e costretto a lasciare il suo ruolo di primo cittadino. Salvo poi, anni dopo, risultare innocente.
Uggetti non è il primo e non sarà l'ultimo esponente politico a rischiare di finire stritolato dalla facile morale giustizialista del M5s. Eppure, questa volta (per la prima volta) un grillino (ma questo termine serve ancora a qualcosa?) del calibro di Di Maio ha deciso di fare pubblica ammenda. "Anche io contribuii ad alzare i toni e a esacerbare il clima. Sul caso Uggetti fu lanciata una campagna social molto dura a cui si aggiunse il presidio in piazza, con tanto di accuse alla giunta di nascondere altre irregolarità […]. È giusto che in questa sede io esprima le mie scuse all’ex sindaco di Lodi e rivolga a lui e alla sua famiglia i migliori auguri per l’esito di un caso giudiziario nel quale il dottor Uggetti, con forza, tenacia e dolore è riuscito dopo anni a dimostrare la sua innocenza", si legge nella lettera di Di Maio.
Di Maio mostra pentimento per "l’utilizzo della gogna come strumento di campagna elettorale" e riconosce che "una cosa è la legittima richiesta politica, altro è l’imbarbarimento del dibattito, associato ai temi giudiziari". Ricordando, comunque, che "la cosiddetta questione morale non può essere sacrificata sull’altare di un cieco garantismo". Si tratta in ogni caso di una svolta. Il M5s, che ha costruito le sue fortune sul tintinnar di manette e una visione dicotomica del mondo in bianco e nero, ammette che, se non funziona il "cieco garantismo", tanto meno può funzionare il "cieco giustizialismo". Il tutto dopo anni di esaltazione dei magistrati quasi a figure mitologiche e di beneficio del dubbio sempre dimenticato per strada.
L'uscita di Di Maio non può essere liquidata come una semplice lettera di scuse. No, quella lettera manifesta un qualcosa che in realtà è evidente già da tempo: la trasformazione del M5s. Il Movimento doveva trasformare l'Italia con il governo del cambiamento, ma in realtà è stato il governo del cambiamento a trasformare il M5s, divenuto voglioso (e capace) di mantenere il potere come quelle forze politiche che aveva sempre criticato. E in larga parte ha trasformato Di Maio.
L'ex (e futuro?) leader politico del M5s è anche ministro degli Esteri. Proprio in quel ruolo ha dimostrato di saper imparare le regole del gioco. Forse non le sapeva in partenza, ma ha dimostrato di poterle piano piano fare suo e utilizzare a suo favore. Smentendo chi lo sottovalutava o derideva per le numerose gaffe. Quelle, con in cima il celeberrimo "presidente Ping" rivolto a Xi Jinping (come chiamare "Peppino" Giuseppe Conte), restano. Ma intanto lui si è fatto uomo politico, diplomatico persino.
Dai viaggi movimentisti con l'ex compagno di banco Di Battista a trovare i gilet gialli al voto a favore di Ursula von der Leyen alla Commissione europea. Dal flirt con la Cina lungo la Via della Seta alla svolta atlantista quando ha capito che aria tirava tra Washington e Pechino. Un'aria che ha inciso sulla dipartita di Conte da Palazzo Chigi e che lui ha saputo far soffiare alle sue spalle per restare alla Farnesina, facendo dimenticare ai ritrovati amici americani il suo passato legame con la Cina. Dagli elogi a Trump a quelli a Biden, sempre in un esercizio di equilibrismo che ha mostrato di saper condurre fino al termine.
Nel suo percorso, intanto, è cambiato anche il M5s. Al governo prima con la Lega, poi con il Pd e la sinistra, infine di nuovo con la Lega e persino con Forza Italia di Silvio Berlusconi. Da fuori si grida, dentro si sussurra.
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