Medio Oriente, l'arroganza del ministro della Giustizia israeliano Yariv Levin: "È giunto il momento di annettere la Cisgiordania", ma non è territorio di Israele

La Cisgiordania, con i suoi 5.860 km² e oltre 2 milioni di abitanti, non è territorio israeliano e la sua occupazione è considerata illegale dalla comunità internazionale dal 1967

La Cisgiordania occupata non è dello Stato di Israele.

L'escalation dell'occupazione: quando l'illegalità diventa politica di Stato

Le recenti dichiarazioni del ministro della Giustizia israeliano Yariv Levin rappresentano un'escalation preoccupante nella politica di occupazione dei territori palestinesi. Durante un incontro con il leader dei coloni Yossi Dagan, Levin ha affermato senza mezzi termini che "è giunto il momento di applicare la sovranità" sulla Cisgiordania, definendo questa fase come "un'opportunità storica che non possiamo perdere".

Queste parole non sono semplicemente provocatorie: costituiscono una dichiarazione d'intenti che viola apertamente il diritto internazionale e decenni di risoluzioni ONU. La Cisgiordania, con i suoi 5.860 km² e oltre 2 milioni di abitanti, non è territorio israeliano e la sua occupazione è considerata illegale dalla comunità internazionale dal 1967.

Un'occupazione che dura da 58 anni

La situazione attuale affonda le radici nella Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando Israele occupò militarmente la Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est e le alture del Golan. Da allora, quello che doveva essere un controllo temporaneo si è trasformato in un'occupazione permanente che ha completamente stravolto la geografia demografica e territoriale della regione. La Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza ONU, adottata subito dopo il conflitto, chiede espressamente "il ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati nel recente conflitto" per garantire "una pace giusta e duratura nel Medio Oriente". Una risoluzione che, dopo quasi sei decenni, rimane lettera morta.

La colonizzazione sistematica

Ciò che rende particolarmente grave la situazione è la politica di colonizzazione sistematica portata avanti da Israele. Oggi nella Cisgiordania vivono circa 475.000 coloni israeliani in insediamenti considerati illegali dal diritto internazionale. Questi numeri rappresentano non solo una violazione delle convenzioni internazionali, ma anche un ostacolo concreto a qualsiasi futura soluzione del conflitto. La strategia è chiara: modificare i fatti sul terreno attraverso l'insediamento di popolazione civile nei territori occupati, una pratica espressamente vietata dalla Quarta Convenzione di Ginevra. Ogni nuova casa costruita, ogni ettaro di terra confiscato, ogni strada tracciata consolida un'occupazione che si presenta sempre più come permanente.

L'accelerazione sotto Netanyahu

Il governo Netanyahu ha ulteriormente accelerato questa politica. Solo negli ultimi giorni sono state approvate 6.000 nuove unità abitative e designati oltre 1.200 ettari di terreno statale in Cisgiordania. Il ministro delle Finanze Smotrich ha celebrato apertamente questi provvedimenti dichiarando: "Grazie a Dio ostacoliamo il pericolo di uno Stato palestinese".

Queste affermazioni dimostrano come l'attuale governo israeliano abbia completamente abbandonato qualsiasi prospettiva di dialogo e negoziazione, sposando invece una linea di annessione de facto che mira a rendere irreversibile l'occupazione.

Il silenzio complice dell'Occidente

Di fronte a questa escalation, ciò che colpisce maggiormente è l'inerzia delle principali potenze occidentali. Gli Stati Uniti e l'Unione Europea si limitano a "condanne ferme" e "preoccupazioni" che non si traducono mai in azioni concrete. Mentre il diritto internazionale viene calpestato quotidianamente, la comunità internazionale si accontenta di dichiarazioni di principio prive di conseguenze pratiche. È significativo ricordare che l'unico presidente americano che ha tentato concretamente di fermare la colonizzazione illegale della Cisgiordania è stato Barack Obama. Durante la sua amministrazione, gli Stati Uniti hanno esercitato pressioni diplomatiche significative su Israele, arrivando persino ad astenersi dalla risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza ONU del 2016, che condannava fermamente gli insediamenti israeliani. Un gesto che rappresentò una rottura storica nella tradizionale protezione diplomatica americana a Israele. Tuttavia, questa politica di maggiore equilibrio è durata appena otto anni. Tutti gli altri presidenti americani, dai repubblicani ai democratici, hanno sostanzialmente permesso l'espansione coloniale, spesso giustificandola in nome dell'alleanza strategica con Israele. Il risultato è un'occupazione che si è consolidata decennio dopo decennio, trasformando quello che doveva essere un controllo temporaneo in un'annessione de facto. Questa inazione non è solo moralmente discutibile, ma politicamente controproducente. Permette a Israele di continuare indisturbato le sue politiche di occupazione, minando la credibilità delle istituzioni internazionali e alimentando una spirale di violenza che non può che aggravarsi.

Verso l'annessione totale?

Le dichiarazioni di Levin non sono episodi isolati, ma parte di una strategia più ampia che mira all'annessione formale dei territori palestinesi. Se questa prospettiva dovesse concretizzarsi, significherebbe la fine definitiva di qualsiasi possibilità di soluzione pacifica del conflitto e la consacrazione di un sistema di apartheid territoriale. La questione palestinese non può essere risolta con la forza o con l'occupazione permanente. La pace può nascere solo dal riconoscimento reciproco dei diritti e dal rispetto del diritto internazionale. Continuare a ignorare questa realtà significa condannare la regione a decenni di ulteriore violenza e instabilità.

In conclusione, le parole del ministro israeliano rappresentano un punto di non ritorno che dovrebbe allarmare ogni democratico. Non si tratta più di gestire un conflitto, ma di assistere alla negazione sistematica dei diritti di un popolo intero. È tempo che la comunità internazionale passi dalle parole ai fatti, prima che sia troppo tardi per salvare qualsiasi prospettiva di pace duratura in Medio Oriente.

Di Eugenio Cardi