La UE boicotta il Giorno della Vittoria in Russia: un dispetto a Putin, ma anche la conferma di un mondo totalmente "scondiviso", ormai privo di riferimenti comuni

La caduta del Muro doveva coincidere con la "fine della storia", ma il mondo non è mai stato così contraddittorio, lacerato, senza nemmeno più un'eredità storica, non si dica ideologica.

La storia è fatta di tempo che è una cosa diversa dalla memoria, il tempo custodisce gli accadimenti, i fatti certi, la memoria si presta a distorcerli, a capovolgerne il senso in funzione del tempo trascorso. Putin celebra in grande stile gli 80 anni dalla caduta del nazismo, in cui la Russia ha avuto un ruolo fondamentale al pari degli angloamericani, ma l'Europa non manda nessuna personalità. Pesa, evidentemente, lo scenario ucraino, ma è da escludere un eccessivo riguardo verso Zelensky, leader inconsistente: sembra più una presa di posizione contro ciò che è la Russia oggi, contro il putinismo. Che il capo del Kremlino voglia sancire gli 80 anni dal Giorno della Vittoria in modo enfatico è comprensibile sia per ragioni celebrative sia per mandare un segnale di potenza e di popolarità al resto del mondo: non sono affatto isolato. Accorreranno il capo cinese Xi Jinping su tutti, insieme ai maggiori governanti in posizione antagonista verso l'occidente da Maduro a Lula, a Fico, Dodik, Lukashenko ed altri fino al palestinese Abbas. Se si può capire la posizione loro, e dello stesso Putin, resta più complicata quella europea: la UE ossessionata coi nazi-fascismi, che cerca di invalidare qualsiasi elezione sgradita, che soffia sulla messa in fuorigioco delle governanti donne considerate non democratiche, la tedesca Alice Weidel come la Marine Le Pen di Francia, che per il momento tollera, mai completamente, mai apertamente, l'italiana Giorgia Meloni? Ma la memoria fa il mestiere suo, rimescola le carte, le trucca se può, appena può. Ne derivano contraddizioni sconcertanti: fino a sei mesi fa chi si ostinasse non tanto a riconoscersi nell'atlantismo a guida americana quanto a porsi in posizione problematica ma non frontale contro gli Stati Uniti veniva considerato da molti un paria, un nemico, un infame oggi: oggi viene riabilitato, considerato uno dalla parte giusta, uno con cui si può dialogare. Il secondo avvento di Trump mette tutto in discussione, in confusione, anche se lo stesso finanziere-industriale-politico agisce da strategia istintuale, spesso incomprensibile, comunque del tutto slegato da qualsiasi retroterra culturale, da qualunque urgenza ideale che non sia quella della concretezza immediata di stampo affaristico. Il mondo conservatore e finanche reazionario si ritrova nei capi assoluti asiatici o sudamericani, ma considera quello americano uno sui cui contare, con le necessarie riserve; quello arcaico progressista, che tira fuori dalla polvere il manifesto di Ventotene e si riconosceva in una certa idea woke dell'America, oggi torna a vedere gli Stati Uniti e chi li guida come il Grande Satana, in modo non dissimile da come lo considera l'Islam. Ad annaspare di più nelle incoerenze del tempo sembra proprio lo schieramento progressista: i sedicenti democratici snobbano platealmente le celebrazioni della vittoria sul Nazismo indette da Putin ma allo stesso tempo guardano con un favore, se non aperta simpatia, alla Cina di Xi che con Putin è un tutt'uno. Dal canto suo, chi “si fida” di Trump è costretto a fare i conti ogni giorno con le sue fughe in avanti, con i suoi scarti umorali, con una politica dai tratti più schizoidi che ragionati, più accidentati che sinuosi: oggi strapazza Zelensky e dialoga con Putin, ma chi vede il boss ucraino come il fumo negli occhi non fa in tempo ad esultare che subito dalla Casa Bianca arrivano moniti anche pesanti al Kremlino.

Mettici che il balletto delle sanzioni e dei dispetti ha un senso più illusionistico che reale, stante la interdipendenza tecnologica e finanziaria di tutti con tutti: ogni Paese o continente tiene in pancia i debiti degli altri, ciascuno dipende da fonti energetiche ed elementi primari che scambia a sua volta, i sistemi che alimentano le infrastrutture di tutti i Paesi sono gli stessi, la tecnologia del divertimento coincide con quella del controllo e avvolge tutti allo stesso modo, il solito Trump può annunciare la cancellazione del social cinese Tik Tok e subito rimangiarsela per immaginarla nella disponibilità dei magnati non più nemici, subito riconvertiti alla sua disponibilità, poi va a finire che non se ne fa niente, che tutto resta com'era: il peggior nemico può facilmente rivelarsi il miglior alleato o almeno il più decisivo, quello cui non si può rinunciare.

Che l'Europa decida di boicottare una ricorrenza fatale, storia nella storia, come la caduta del nazismo la dice lunga sulla coerenza degli orientamenti e magari dei sentimenti. Poi si potrà dire che la realpolitik impone anche scelte del genere, ma la verità è che è diventato non riduttivo ma assurdo tagliare la mela del mondo nelle due parti otto-novecentesche, comunisti e anticomunisti, fascisti e antifascisti: nondimeno queste categorie insistono, sembrano l'unica bussola per 8 miliardi di abitanti di un pianeta senza bussola. Se non altro, servono ancora a sospingere la carriera alle fornaie che si sono stufate di alzarsi all'alba per impastare, agli scrittori col talento dell'ambizione dei quali ci si può chiedere, constatandone la produzione vagamente manicomiale, se siano ossessionati dal Duce di turno o se, freudianamente, non ne siano attratti, avvolti in una fascinazione morbosa come dei Pitigrilli che non ce l'hanno fatta.

Il mondo-Babele fatica a trovare coerenza negli orientamenti ideologici, figurarsi in quelli ideali. I governanti, non li si chiami più uomini di Stato, non hanno più ambizioni né prospettive di lunga durata, si comportano come chi sa che il suo ruolo è ridimensionato ad una funzione ancillare, di lusso ma pur sempre ancillare, della finanza globale che tutto muove, tutto decide e assorbe il potere politico come la produzione come l'informazione. Oggi un politico bene che gli vada dura cinque anni e, sapendolo, subito si dispone a mettere a frutto i rapporti che matura nella sua effimera stagione di comando, conoscenze da sfruttare riciclandosi in mercante o trafficante. In una parola, oggi un politico vuol durare fin che dura, poi ha subito pronta la seconda vita. E che dovrebbe fare al cospetto di mutamenti mai così violenti e repentini nella storia dell'umanità? Capovolgimenti e voltafaccia non si contano nella malapianta del potere, in particolare gli italiani vi eccellono, ma a questo punto gli scenari sono troppo fluidi, troppo imprevedibili e fulminei anche per i grandi opportunisti e i grandi cialtroni. Il Novecento, “secolo breve”, finì, a dirla con Philippe Daverio, nel 1989, con la caduta del Muro, e la globalizzazione entrando nella sua fase matura convinse qualche analista spericolato come Francis Fukuyama a parlare di fine della storia per dire un mondo pacificato, omogeneizzato nel segno e nel senso del liberismo finanziario e post consumistico: venticinque anni dopo dobbiamo amaramente considerare che è andata all'esatto contrario, che una tecnologia troppo complicata e ambigua per i Neanderthal che continuiamo ad essere ha unito il mondo nel profitto che genera disperazione, ma, quanto al resto, il mondo non è mai stato così confuso, così paranoico. Un mondo totalmente “scondiviso”. Spaccato come una mela ma non in due: in tanti frammenti che non stanno insieme, che non si capiscono fra loro e dentro di loro. Tutto è lacerato, niente si tiene. La UE rinuncia a celebrare la vittoria sul nazismo per fare dispetto a Putin, Trump cambia idea ad ogni sorgere del sole, la Cina si vota al capitalismo di Stato tecnologicamente ultra-avanzato, i cardinali si comportano come influencer e non nascondono gli odii reciproci, le manovre, le faide che ci sono sempre state ma che fino a ieri avevano cura di avvolgere in un velo di mistica ipocrisia. Neppure lo Spirito Santo riesce a tenerli insieme, se uno ne parla lo fa ghignando in faccia ai cronisti servili che se ne contentano.