Quel che c’è dietro i dazi, una guerra monetaria, industriale o… con la Cina, la globalizzazione è finita (ma non andate in pace)
L’America è colpevole della predicazione neoliberista, in nome della quale ha fatto giocare la Cina da “falso nove”. Ora però la globalizzazione presenta il conto
L’ha fatto, scrivono. Se c’era una pagina abbondantemente scritta del libro mastro di Donald Trump alla Casa Bianca era proprio il lungo capitolo dei dazi: perché sorprendersi. Tanto valeva cercare di leggere in controluce se al di là dei annunci e degli show in perfetta sintassi trumpiana ci fosse una tesi politica. I dazi sono una guerra commerciale e sono finalizzati a fare male: è nella natura delle guerre. Così come è nella natura delle guerre far vittime anche in chi le ingaggia per primo.
Perché dunque? Così come Elegia Americana, l’autobiografian di J.D.Vance, mi aveva aiutato a capire cosa stesse accadendo nella società americana (altro che gli endorsement di cantanti e attori) a tal punto da dire e scrivere perché avrebbero vinto i repubblicani, oggi un altro libro - strepitoso per densità culturale e analisi - mi aiuta a comprendere meglio: si tratta de “La Globalizzazione è finita” scritto da Rana Foroohar, vicedirettrice del Financial Times, firma economica tra le più acute. Non è un libro per capire la rotta di Trump (anzi, siamo lontani dal minimo sostegno della Foroohar per il presidente Usa); è piuttosto un libro per capire la mappa su cui si muovono lui e gli altri. La globalizzazione è finita ed è fallita perché il neoliberismo ha catturato l’anima delle economie (quindi delle società) e l’ha messa a disposizione di poche multinazionali, di pochi player egemonici - da Big Tech a Big Pharma, dalle Big Four (le quattro agenzie di revisione Piovra) a Big Banks, dai pochi colossi assicurativi alle agenzie di rating - che si intersecano in qualche punto finanziario per poi occupare l’intero asse cartesiano.
La globalizzazione - scrive la Foroohar - ha fallito perché ha compresso la crescita, ed è finita perché ha travolto il ceto medio. Ora bisogna fare i conti con le macerie e i meccanismi distorti. Tra i quali c’è allungamento delle catene di approvvigionamento industriale. Ecco, questo è un elemento che ci può servire per capire il nuovo disegno della Casa Bianca.
Giusto o sbagliato che sia - non importa più giudicarlo, tanto è lì, sul campo - Trump mette in fila alcuni elementi. Non so se egli abbia letto il saggio di Rana Foroohar ma potrebbe essere che, sulla sua pelle populista, Donald avverta l’esigenza di rimettere in piedi la working class e il ceto medio americano affinché possano sperare di realizzare il loro sogno americano. Lo aveva promesso in campagna elettorale: American First. Ci sono poi tre altri aspetti, più profondi (e su cui avremo modo di tornare nei prossimi giorni): il pericolo Cina, il dollaro troppo forte, il deficit commerciale.
La Cina è un focus che tiene impegnati i vertici militari americani come quelli economico/finanziari; per scollarla dal Drago che Trump accredita e rilegittima Putin (tutto si lega). La Cina si sta muovendo in maniera pesante attorno a Taiwan, sineddoche della sfera dell’Indopacifico, area dove gli esperti militari registrano le più alte tensioni (tanto da predire che semmai dovesse scoppiare una guerra mondiale l’incendio partirebbe da lì e non dall’Europa). Taiwan è l’epicentro dei microchip: semmai venissero a mancare si inceppa il mondo industriale (non a caso l’America ha siglato un accordo da 100 miliardi di dollari con la Tsmc). Dire Cina infine significa dire un terzo dell’economia mondiale, nel senso che dipende da materie cinesi o sotto la scorta cinese, dalle batterie al cobalto, dal rame alle terre rare. Dire Cina significa la più grande flotta di navi cargo che solcano i mari coi loro container. Ecco, se mai dovesse scoppiare una guerra o solo dovessero esserci tensioni, la catena allungata della globalizzazione metterebbe in ginocchio gli americani. Aver inserito la variabile dazi sul campo significa aver ingaggiato una guerra globale per rimarcare i confini americani e rimettere in piedi la manifattura americana e proteggere il dollaro, oggi troppo forte rispetto a un’America con debito pubblico altissimo e bilancia commerciale in deficit. L’America è colpevole della predicazione neoliberista, in nome della quale ha fatto giocare la Cina da “falso nove”. Ora però la globalizzazione presenta il conto.
Di Gianluigi Paragone