Tim e Open Fiber: il destino della Rete Unica resta appeso ai vincoli antitrust di Bruxelles
La firma del Non Disclosure Agreement tra TIM e CDP per la creazione della Rete Unica dà nuova linfa al progetto, soprattutto grazie al decisivo supporto governativo all’operazione che era mancato, almeno in modo lineare, in passato. Tuttavia la Rete Unica rischia comunque di arrestarsi
La firma del Non Disclosure Agreement tra TIM e CDP per la creazione della Rete Unica (cioè la fusione tra le reti di Tim ed Open Fiber) dà nuova linfa al progetto, soprattutto grazie al decisivo supporto governativo all’operazione, supporto che invece era mancato, almeno in modo lineare, in passato. Tuttavia, la Rete Unica rischia comunque di arrestarsi o essere fortemente ridimensionata una volta che arriverà all’esame antitrust a Bruxelles.
Il progetto di separazione della rete TIM, già annunciata dai vertici dell’incumbent, e l’apparente disponibilità a scendere in minoranza nella newco della Rete Unica, non dissolvono i dubbi di compatibilità con le norme antitrust europee, almeno finchè non se ne conosceranno i dettagli. Per la Commissione europea, ed in particolare per il commissario Vestager che dirige la Direzione generale della concorrenza, è necessario che TIM ceda completamente il controllo della sua rete una volta aggregata a quella di Open Fiber. In altre parole, TIM dovrebbe scendere fortemente sotto il 50% della newco della rete (almeno al 25%) e non avere alcun potere di influenza sulla gestione degli affari e la nomina dei vertici. Ciò significa che delle soluzioni pasticciate in cui TIM continuasse a detenere un controllo congiunto sugli assets, assieme ad altri azionisti compresa CDP, non sarebbero accettabili per Bruxelles.
Peraltro, se la Rete Unica continuasse ad essere controllata da TIM, anche se di concerto con altri azionisti, la newco non potrebbe godere dei vantaggi regolamentari che il nuovo Codice Europeo delle comunicazioni elettroniche riconosce agli operatori all’ingrosso detti wholesale-only.
Inoltre, anche se la Rete Unica fosse strutturata in modo da risolvere il problema dell’integrazione verticale, la Commissione europea chiederebbe conto alle autorità italiane del reale scopo dell’operazione. In effetti, fondendo Tim ed Open Fiber si eliminerebbe la concorrenza tra gli unici due network nazionali in Italia. L’argomento secondo cui “non bisogna duplicare gli investimenti” non verrebbe creduto a Bruxelles, poiché entrambi gli operatori, TIM ed Open Fiber, hanno già avviato e programmato investimenti sull’intero territorio italiano, e laddove non ve ne siano sono previste le gare per le aree grigie con i fondi del PNRR. Se TIM ed Open Fiber non fossero in grado di investire, Bruxelles sarebbe meno rigida, ma non è questo lo scenario che si vede nel mercato italiano. Peraltro, in tutta Europa esistono quasi sempre almeno due operatori di rete in concorrenza.
Quindi, l’eventuale luce verde di Bruxelles alla Rete Unica potrebbe costare l’imposizione di obblighi pesanti quali la dismissione di assets non “core”, quali ad esempio la controllata in Brasile, Sparkle e tutto ciò che può essere spacchettato dalla rete TIM. In particolare, la Commissione europea ordinerebbe di vendere ad altri operatori i segmenti di rete ridondanti risultanti dalla fusione, in particolare quelli nelle aree metropolitane (Milano ecc). Questo vuol dire che la c.d. Rete Unica continuerebbe ad avere un forte concorrente nelle aree italiane maggiormente redditizie.
E’ vero che il governo italiano si adopererebbe molto per ottenere la luce verde da Bruxelles alle miglior condizioni, ma non bisogna dimenticare che nel settore telecom italiano stanno piovendo fondi pubblici del PNRR in grande quantità, in forma di voucher per servizi ultrabroadband, aiuti alle imprese (aree grigie), scuole, sanità e persino per il cloud. Una buona parte di queste sovvenzioni pubbliche finiranno proprio a TIM (ed Open Fiber), quindi non è strano che i funzionari di Bruxelles si interroghino su opportunità e tempismo di questa operazione. Per non parlare delle altre capitali europee, alcune delle quali devono mettere mani al portafoglio proprio per finanziare il Next Generation EU.
Di Innocenzo Genna