Federmanager Assemblea nazionale 2021, Presidente Cuzzilla: "PNRR, spendiamolo bene per i nostri figli"
Stefano Cuzzilla, Presidente Federmanager: "Ci impegnamo a collaborare con tutte le forze del Paese per realizzare un sistema economicamente più competitivo, socialmente più equo ed ambientalmente più sostenibile"
Durante l'Assemblea Nazionale 2021 di Federmanager, evento chiave per il mondo del management industriale che si è tenuto oggi a Roma, sono state presentate le proposte dei manager per il rilancio e la ripartenza del Paese. L’assemblea si è aperta con la relazione del presidente federale Stefano Cuzzilla che ha delineato gli obiettivi strategici del prossimo futuro. Un vero e proprio “Anno 1” per voltare pagina e ripartire.
Federmanager, Cuzzilla: "Manager pretendono di sedersi ai tavoli decisionali per concretizzare PNRR"
"La vostra presenza oggi testimonia la forte coesione che tiene unito questo Paese attorno a un serio progetto di ripresa e di futuro. Un progetto che ci vede tutti protagonisti: istituzioni, imprese, manager e lavoratori, amministrazioni, organizzazioni di rappresentanza e società civile. Un progetto che richiede responsabilità, coraggio e – lasciatemi aggiungere – una buona dose di entusiasmo.
Dobbiamo coltivare entusiasmo perché il momento attuale è straordinario e va cavalcato. Se abbiamo intitolato questa riunione “Anno Uno” è proprio perché abbiamo la percezione che, pur nelle turbolenze della pandemia, esistano ora le condizioni per agire in discontinuità con il passato e di migliorarci come società, in modo rapido e innovativo.
È così che mi presento a voi: non certamente per disconoscere la crisi, bensì per individuare in essa il seme di una nuova stagione di cui stiamo assaggiando i primi positivi segnali. Dal rimbalzo del Pil all’eccezionale recupero del nostro export, passando per il prestigio internazionale esercitato nel recente G20, l’Italia sta dimostrando di saper invertire la rotta.
Uno è anche il numero del primato che sembriamo aver raggiunto nel mondo, come ha raccontato bene il video che abbiamo appena visto. Dallo sport alla ricerca scientifica, dai record olimpici fino alla più incisiva campagna di vaccinazione d’Europa, abbiamo rifondato la nostra credibilità di nazione.
Pertanto, il contatore non può essere azzerato, ma va rimpostato da qui. E voglio dire innanzitutto che, se vogliamo riuscire in quest’opera di rinascimento, dobbiamo avere ben chiaro in testa a favore di chi lo facciamo. Non lo facciamo certamente per chi come me, ha goduto un tempo di prosperità e benessere. Non lo facciamo per rimettere in vantaggio l’economia, che la storia ha dimostrato saper alternare fasi cicliche e anticicliche. E pur se sembrerò provocatorio, non lo facciamo nemmeno per il pianeta che, nel peggiore degli scenari possibili, saprà fare a meno di noi e ritrovare un altro equilibrio. È, piuttosto, per l’avvenire delle nostre ragazze e ragazzi che noi dobbiamo agire.
Aristotele diceva che noi uomini possiamo deliberare unicamente sulle cose incerte, quelle che dipendono da noi e che sono realizzabili perché, come ci ha insegnato, noi deliberiamo allo scopo di agire. Il management industriale è il miglior interprete di quella filosofia: scegliere per agire, cercando di essere veloci e concludenti. Se questi siano tempi profetici, forse non spetta a me dirlo. Quello che posso dire è che la profezia in nulla assomiglia all’utopia. C’è concretezza e c’è scalabilità in ciò che presentiamo oggi. È il domani su cui stiamo lavorando. È il senso di responsabilità, coraggio ed entusiasmo dei manager italiani. È il domani in cui vogliamo credere.
La fiducia è base delle relazioni umane ed è elemento chiave di tutte le teorie economiche. Oggi gli italiani esprimono tassi di fiducia crescenti, ma noi sappiamo che si tratta di una fiducia ancora fragile. Come rafforzarla è anche compito nostro. Il ruolo dei corpi intermedi come Federmanager è indispensabile per strutturare questo ottimismo e per porci in quella prospettiva condivisa di sviluppo, che è stata richiamata dal presidente Draghi. In ossequio a quell’appello a un nuovo Patto per l’Italia, oggi il management italiano è pronto a sottoscriverlo.
Questo è il patto della dirigenza per l’Italia. È l’impegno a collaborare con tutte le forze del paese per realizzare un sistema economicamente più competitivo, socialmente più equo ed ambientalmente più sostenibile. Chi non collabora corre il pericolo di credersi migliore degli altri, indicava Adorno. Con la conseguenza, poi, di fare della propria critica della società, un’ideologia al servizio del proprio interesse privato. Noi manager non ci crediamo migliori degli altri né intendiamo barattare l’interesse generale con uno particolare. Piuttosto, noi siamo consapevoli di chi siamo e delle nostre capacità.
E pretendiamo di sedere sui tavoli decisionali per concretizzare il piano più ambizioso di riforme ed investimenti che si ricordi dal Dopoguerra. Questo Pnrr, che è sulla bocca di molti, deve ancora permeare il tessuto produttivo. È ancora lontano dalla quotidianità. È, ammettiamolo, ancora sulla carta. Va messo a terra. Va trasformato in progetti. Va tradotto in azione. Voglio ricordare che, noi, siamo stati i primi a rimboccarci le maniche. I manager italiani hanno già dimostrato di detenere strumenti concreti e metodo d’attuazione che hanno salvato le nostre imprese nel periodo più buio della pandemia.
Parliamo di oltre 222 miliardi di euro. Se sommati alle altre risorse nazionali ed europee, arriviamo a cifre che implicano una capacità di spesa dieci volte maggiore di quella sperimentata finora. Sono soldi da spendere bene. Da non sprecare. Da proteggere da illegalità, dalla corruzione, dell’evasione fiscale che da sola vale oltre 100 miliardi di euro ogni anno.
Non è un caso che quest’anno abbiamo lanciato un progetto, insieme alla pontificia università Antonianum e alla Accademia mariana internazionale del Vaticano, chiamato “Liberi dalle Mafie” con cui stiamo formando i manager che andranno a gestire i beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata: professionisti che avranno coscienza e conoscenza per riportare all’economia pulita ciò che è stato gestito dal malaffare.
Ci sono enormi opportunità, ma enormi sono anche i rischi. Questa improvvisa e massiccia iniezione di denaro agisce come un doping. Rischiamo di alterare il sistema, se non abbiamo chiari gli obiettivi e come raggiungerli. Serve affidarsi ad approcci manageriali e serve mettere la competenza al centro della gestione. In questo noi siamo bravi, e siamo determinati a condividere la prospettiva di sviluppo indicata dal Governo.
Il mondo della dirigenza privata e pubblica che si riunisce sotto il nome di Cida è pronto a muoversi in linea con gli obiettivi. Lo faremo con serietà e senza inganni, noi che siamo figli d’arte della falsa prospettiva. Anche se il Borromini vi farà credere di poter attraversare una galleria lunga 40 metri, noi sappiamo che è solo di 8 e che la statua di Marte, che laggiù pare a grandezza naturale, misura in realtà 60 centimetri.
Quindi, dobbiamo aver presente due verità. La prima è che poche società sono state in grado di assorbire grandi e improvvisi afflussi di capitale senza subire rialzi del debito, bolle finanziarie e altre crisi economiche. A volte, dare è meglio che ricevere, come hanno scritto due illustri economisti statunitensi. Noi oggi stiamo ricevendo capitali e dobbiamo porre massima attenzione all’uso che ne faremo.
La seconda verità è che, storicamente, le economie che subiscono profonde flessioni non si riprendono mai del tutto. Questo perché, anche se si cresce a ritmo sostenuto, le fratture economiche e sociali che sono state prodotte lasciano i loro strascichi. La crescita, insomma, non è di per sé sufficiente a colmare i divari. E qui vengo a richiamare la vostra attenzione: dobbiamo misurare meglio ciò che conta. Non solo per spendere in modo migliore, ma soprattutto per generare benessere.
In azienda questa trasformazione è già in atto. Pensiamo ai bilanci di sostenibilità o alla certificazione di quelli di genere, che il Parlamento ha di recente introdotto come obbligatoria anche nelle imprese di medie dimensioni. Molte società stanno quantificando l’impatto generato sul territorio, affiancando al fatturato nuovi indici di ricchezza. Persino la finanza sta valutando la sostenibilità come asset di valore, spostando il rischio di investimento verso chi promette di rispettare l’ambiente e si impegna verso la società.
Misurare meglio ciò che conta significa cambiare il modo in cui valutiamo la nostra performance a livello Paese. Faccio qualche esempio. Il numero di persone in povertà, per prima cosa, che sono aumentate di oltre un milione a causa della pandemia, arrivando a 5,6 milioni, vuol dire quasi un italiano su dieci in stato di povertà assoluta. L’indice di disoccupazione, ad esempio, quando nel 2020 circa un milione di lavoratori è fuoriuscito dal mercato. Bisogna recuperare questa caduta, come stiamo facendo, ma recuperare anche la mancata crescita. Le disuguaglianze, e non solo quelle di reddito, ma quelle di opportunità. Quelle che impediscono, a parità di sforzo, di affrancarsi dalle condizioni socioeconomiche di partenza.
Guardiamo anche al trend di competenze in uscita, noi che abbiamo lasciato andare all’estero mezzo milione di under 40 negli ultimi 10 anni, mentre i rientri sono stati poco più di un quarto. I profondi divari territoriali, nelle periferie e nel Sud che, per fare un altro esempio, ha il 20% di lavoro nero, il doppio del Nord-Italia, e l’80% delle imprese con un livello di digitalizzazione basso o molto basso.
O, ancora, il cosiddetto gender gap, con la mancata inclusione delle donne nel mondo del lavoro, per cui lavora meno di una donna su due, nella metà dei casi con contratti part-time e con differenze salariali tra le peggiori in Europa. Tra i dirigenti, arriviamo appena al 18%. Potrei continuare questa lista, rimarcando tutti gli indicatori di cui dovremmo ragionare quando parliamo di crescita del Paese.
Il nostro obiettivo, invece, è il progresso della società in una visione di ecologia integrale che tutto unisce e tutto correla. Nel 2021 le nascite non raggiungeranno nemmeno la soglia di 400mila unità. Se vogliamo davvero lavorare al domani, dobbiamo ripensare un sistema economico competitivo in cui le persone stiano bene in salute, possano formare una famiglia, diano alla vita prossime generazioni. Altrimenti ci ritroveremo a vivere in uno scenario paradossale, ben osservato recentemente dal presidente dell’Istat, Blangiardo, in cui l’aumento della durata della vita media segna più futuro per ognuno preso singolarmente, ma sempre meno futuro per tutti noi insieme.
Pertanto, ora che dobbiamo scegliere come indirizzare le risorse economiche a disposizione, bisogna misurare meglio ciò che conta perché ciò che si misura influisce su ciò che si fa. Chiarito che la mano della dirigenza è tesa e aperta e che siamo determinati a collaborare al progetto di un domani sostenibile e inclusivo, dobbiamo occuparci seriamente di lavoro.
Questa Repubblica si fonda sul lavoro perché è attraverso di esso che si realizza un bene più alto. È il lavoro l’architrave dell’intero sistema. Per questo, le risorse vanno indirizzate per costruire un lavoro di qualità, specializzato e ben retribuito. Qualità, specializzazione e salari migliori si traducono in maggiore competitività e maggiore attrattività del Paese. Dopo una crisi come quella che stiamo attraversando, occorre chiedersi se sia sufficiente recuperare il numero di occupati che abbiamo perso oppure, e inoltre, se abbiamo intenzione di offrire a quelle persone dei lavori migliori.
Noi manager sogniamo un Paese che non ha paura di alzare l’asticella, di alleggerire il costo del lavoro per avere retribuzioni più congrue. Sogniamo un Paese in cui siano stralciati i tetti agli stipendi, che sono l’emblema di una visione antiliberista e votata al ribasso.
Davvero pensate, ancora oggi, che il limite alle retribuzioni dei manager nella pubblica amministrazione o nelle società partecipate non abbia effetto sulla loro selezione e, quindi, sulle performance aziendali? Che sia possibile, a ogni cambio di maggioranza politica, sostituire la dirigenza senza effetti negativi sull’efficacia della Pa? Perché mai un progetto pubblico dovrebbe rappresentare un sacrificio economico, quasi una crociata piena di insidie? Suvvia, non nascondiamoci dietro un dito: ragioni di equità e ragioni di opportunità rendono questi limiti controproducenti.
Tra l’altro, il lavoro specializzato e ad alto valore aggiunto è ciò che stanno chiedendo le imprese. Il problema, semmai, è che sul mercato non trovano le competenze di cui hanno bisogno.
Secondo l’osservatorio 4.Manager, questo è un problema comune al 45,5% delle imprese, ed è il primo ostacolo allo sviluppo, seguito dalla burocrazia nel 32% dei casi e nel 28% dalle insufficienti competenze manageriali presenti all’interno dell’organizzazione.
I dati più recenti descrivono una difficoltà di reperimento nel 36,4% delle nuove assunzioni, (parliamo di 5,5 punti percentuali in più rispetto a settembre 2019), un dato che sale al 48,4% per i dirigenti. Il tema delle competenze pertanto ci riguarda tutti, management compreso.
A un anno di distanza, oltre a non esserci stata la temuta emorragia di figure manageriali, registriamo una ripresa della domanda di dirigenti pari a un +50%. Cosa intendiamo fare, dunque, per rispondere a questa domanda? Vedete, il nodo delle competenze si scioglierà se sapremo, allo stesso tempo, investire sul sistema dell’istruzione e ricerca, così come sul sistema di formazione in azienda e on the job.
Il secondo aspetto non è meno importante del primo; anzi, ha una capacità di produrre effetti nel breve periodo che potrebbero rappresentare moltiplicatori significativi in questo momento di ripartenza. Iniziative come il rifinanziamento del Fondo nuove competenze vanno nella giusta direzione perché incentivano il mondo dell’impresa a investire in formazione interna.
Ci piacerebbe che la cooperazione tra sistema pubblico e privato segni finalmente il riconoscimento della funzione svolta dai Fondi interprofessionali. Si tratta di uno strumento importante che lo Stato deve riconoscere: già oggi il 20% di quello 0,30 che le imprese versano ai Fondi di formazione interprofessionali viene trattenuto. È importante per tutti che questi fondi non siano utilizzati per finalità diverse da quelle formative.
Dobbiamo approfittare della congiuntura e della fiducia che rileviamo nelle nostre Pmi per recuperare il cosiddetto “capitale mancante”, quella componente di trasformazione del capitale umano e sociale che ci serve per rispondere ai nuovi fabbisogni.
Sostenibilità, digitalizzazione, interoperabilità, automazione, globalizzazione e affermazione di nuovi paradigmi sociali sono processi iniziati da tempo. Oggi sono accelerati dalla maggior consapevolezza che ne ha acquisito il mondo, anche per colpa dello shock pandemico.
Non siamo nella situazione del faraone che si era preparato ai sette anni di carestia accumulando le eccedenze agricole dei sette anni di abbondanza. Noi oggi per restare competitivi sul mercato del lavoro dobbiamo attrezzare il nostro sistema formativo rapidamente per formare il capitale umano che nei prossimi anni dovrà programmare, realizzare, e gestire le nuove tecnologie e le risorse naturali disponibili.
Vecchie e nuove competenze vanno mescolate con sapienza, privilegiando anche la formazione tecnica e specialistica, a partire dagli Its e dalle materie “Stem”. Se la mano pubblica deve sostenere il pilastro dell’istruzione, quella privata può e deve fare di più. Pertanto, chiedo alle aziende di farsi alleate del management in questa opera di riconversione delle competenze interne, che a mio avviso costituisce la migliore salvaguardia dell’occupazione. Di sostenerla finanziariamente, investendo in piani formativi prima, come ho spiegato, e in progetti di politica attiva poi.
Con Confindustria e con Confapi, così come con alcune grandi imprese, stiamo siglando accordi specifici per il management che muovono investimenti privati per milioni di euro con un obiettivo duplice: garantire l’assessment dei veri fabbisogni aziendali da un lato e, dall’altro lato, la ricerca e selezione delle competenze che, fuoriuscite dal mercato, possono essere reinserite in modo coerente e vantaggioso per gli obiettivi di impresa.
Vogliamo essere sicuri di ciò che il sistema produttivo ha bisogno e vogliamo essere altrettanto sicuri di quali competenze siano necessarie per affrontare le prossime sfide. Dobbiamo conoscerlo, il mercato, e immaginare le sue evoluzioni. Scusate se lo sottolineo, ma le politiche attive del lavoro si impostano così.
Noi ci stiamo attivando con piani di aggiornamento professionale e con la costruzione dei nuovi profili manageriali, preparando squadre di manager dell’innovazione, di mobility manager, di export manager, di energy manager, di digital Cfo e di manager per la sostenibilità che faranno da traino per la ripresa economica.
Oggi chiediamo al Governo di sostenere questo sforzo. Chiediamo di confermare il voucher per gli innovation manager e di prevedere strumenti simili per l’inserimento delle altre figure, a partire dai manager per la sostenibilità. Sgravi fiscali che incentiveranno le imprese a investire nel nuovo che serve.
Concorrenza, fisco e semplificazione. Queste sono le riforme da realizzare al più presto. Ma non vorremmo che, nella corsa, si prendano abbagli.
La vera partita la giochiamo sulla delega fiscale. Ho appena suggerito di utilizzare la leva del fisco per aiutare le imprese ad assumere le figure di alto profilo perché sono strategiche. Ma il prelievo è eccessivamente gravoso per tutti e si ripercuote nei fatti anche sulla stabilizzazione del lavoro, solcando profonde iniquità tra le generazioni.
Il cuneo fiscale va abbattuto, sostengono le imprese. Noi siamo d’accordo, anzi rilanciamo l’urgenza di avviare una riforma dell’Irpef che tuteli i redditi da lavoro e di finalizzare quel riordino della tax expenditure che ci porti a uscire dalla giungla di detrazioni e deduzioni in cui siamo costretti riconoscendo maggior peso a quelle che riguardano materie di cui si occupa la nostra Costituzione, come la previdenza e l’assistenza sanitaria.
Anche sulla questione pensionistica stiamo creando strumentalmente un conflitto generazionale. Le pensioni sono frutto del lavoro e vanno difese come va difeso il lavoro. Vanno rispedite al mittente le insinuazioni sulle cosiddette “pensioni d’oro”: sono pericolose perché generano contrapposizioni sociali e sono insidiose perché non riconoscono che oltre la metà del gettito Irpef è sostenuto da appena il 13% dei contribuenti, che sono quelli che pagano le pensioni degli altri. Se separassimo i conti della previdenza da quelli dell’assistenza, cosa che noi chiediamo da tempo, forse avremmo un quadro più chiaro dei conti pubblici e ci risparmieremmo ipocrite equazioni.
Inoltre, non è pensabile che qualcuno oggi ancora sottovaluti l’importanza della previdenza complementare. Non è accettabile che da più di 20 anni il limite per la deducibilità fiscale per chi si iscrive a un fondo pensione sia rimasto sempre uguale a se stesso. E non è ammissibile che qualcuno proponga di eliminare la tassazione sui rendimenti e di portare a tassazione ordinaria ciò che oggi è già tassato al 15%, disincentivando ciò che dovrebbe essere incentivato.
In verità, i fondi di previdenza complementare raccolgono un risparmio potenzialmente strategico e andrebbero considerati nel loro ruolo di investitori istituzionali. Un ruolo che stanno dimostrando di esercitare, iniziando a investire nell’economia reale, sostenendo settori come infrastrutture, Pmi, real estate. Un ruolo strategico che può andare a beneficio del nostro Paese, che oggi ha oltre 1.000 miliardi di euro di risparmio privato parcheggiati sui conti correnti.
Come per la previdenza, dovremmo aver imparato anche il valore della sanità integrativa.
Sappiamo che le politiche di welfare pubblico sono state messe a dura prova dalla pandemia. Una sfida estremamente ardua anche per i medici e tutto il personale sanitario in prima linea in questi mesi di emergenza e che, per questo motivo, non smetteremo mai di ringraziare.
Eppure, sono state carenti, le soluzioni di sanità territoriali. Assenti, le soluzioni di assistenza a distanza, telemedicina o sanità digitale.
Tutto questo ha generato effetti devastanti sulle famiglie e distorsivi sul mondo del lavoro, con ad esempio la fuoriuscita di massa delle donne lavoratrici, le uniche rimaste a prendersi cura di bambini ed anziani.
Diciamo il vero: su questi capitoli il pubblico non riuscirà a fare da solo. Possiamo scegliere se lasciare fuori protezione fette di popolazione, o concentrare le risorse su ciò che è essenziale ripensando la relazione tra welfare pubblico e welfare aziendale, sostenendo, come io sostengo, la necessità che per il bene salute convergano in modo integrato le risorse di Stato e privati.
Avrete certamente compreso che, dietro il patto della dirigenza per l’Italia, è tracciato il disegno di una maggiore cooperazione tra pubblico e privato, in cui il management intende svolgere un ruolo propulsivo nelle tre direzioni indicate dal Pnrr: la trasformazione digitale del Paese, la transizione ecologica del sistema produttivo e il rilancio del Mezzogiorno.
Non ci sono solo i fondi europei, ma anche una manovra espansiva da 30 miliardi di euro, di cui 8 destinati al taglio delle tasse.
Tutto questo non è gratis, ricordiamolo. Perciò c’è bisogno che il mondo privato accenda le sue energie. Gli investimenti privati sono l’altra parte del piano, quella di cui si parla meno, quella più importante.
Vi ricordate lo spillo di Adam Smith? Per fabbricare uno spillo, notava il padre dell’economia politica, occorrono circa 18 lavorazioni industriali. Si può scegliere se produrre interamente lo spillo nella nostra fabbrica, oppure acquistarlo, o acquistare alcune parti di esso, sul mercato estero, a prezzi inferiori.
Dietro questa metafora c’è il bivio a cui siamo giunti. E come ai più importanti bivi della vita, non c’è segnaletica. Da un lato, non possiamo permetterci come nazione di dipendere dall’estero in settori per noi strategici. Dall’altro lato, non possiamo soprassedere sull’evidenza che, anche per effetto dello shock pandemico, esiste la possibilità concreta di costruire un nuovo ordine mondiale all’insegna di rinnovato multilateralismo, che è l’unico a poter darci le giuste risposte in tema di salute, clima e lotta alla povertà.
Nel concreto, dopo aver atteso decenni per una soluzione sull’ex-Ilva, chiederci se intendiamo continuare a produrre il miglior acciaio d’Europa e rispondere sì. Dopo aver dismesso il nucleare, chiederci nel concreto se intendiamo investire in fonti rinnovabili, a partire da sole e vento di cui siamo ricchi e rispondere sì. O se crediamo nella graduale transizione all’idrogeno, verde e blu, e rispondere sì. Chiederci se tessile e abbigliamento è meglio che tornino in filiera, con operazioni significative di reshoring, e rispondere sì. Chiederci se costruzioni, grandi opere, dal Tav al ponte sullo stretto, vadano realizzati e rispondere sì. Chiederci se intendiamo produrre brevetti industriali, produrre farmaci e produrre vaccini, e rispondere sì. Trasformare finalmente il turismo in un’industria, e rispondere sì.
Questo è ciò che fa una grande potenza industriale. Questo è l’approccio che muove i capitali esteri e fa tornare attrattivi, invece che essere preda di chi all’estero è più grande o più spregiudicato di noi. Questo è dare un contributo alla prospettiva condivisa di sviluppo di cui ha parlato il nostro presidente del Consiglio.
Per riuscirci, occorre fare una cosa semplice e non banale che noi ripetiamo a gran voce: rendere le nostre imprese più produttive, più grandi nella loro dimensione, più forti nella cooperazione di filiera e, non da ultimo, più managerializzate.
Se pretendiamo di restare ancorati al modello di piccola e media impresa, all’ideale del mercato di nicchia, al provincialismo italiano, alla proprietà familiare che passa da padre in figlio, verremo stralciati via dalla competizione globale.
Se abbiamo imparato una lezione dal Covid-19, è che sulla salute pubblica occorre una cooperazione di sistema. E questo vale anche per tutto il resto. Dalle condizioni lavorative alla tassazione dell’impresa. Pertanto, così come il G20 ha formalizzato la tassa minima sui profitti, così come la Cop26 ha lavorato per vincolare lo sviluppo alle soglie di sostenibilità, noi come Paese dobbiamo rivedere il nostro progetto industriale rifondando la leadership che deteniamo a livello globale.
Con responsabilità, con coraggio e con entusiasmo.
Ciò che potrebbe sembrare una questione nazionale, non lo è più. Le nostre decisioni si riflettono sui cittadini di altre parti del pianeta e viceversa. Siamo tutti indissolubilmente legati a doppio filo. Peccato che il mondo a cui eravamo avvezzi sia già cambiato ed è bene che, come ho indicato all’inizio, chi ha l’opportunità di deliberare, scelga bene e agisca in fretta"
Federmanager, Presidente Stefano Cuzzilla: "Lanciato patto per la dirigenza, ci impegnamo a rilanciare Italia"
Stefano Cuzzilla, Presidente Federmanager, a Il Giornale d'italia nell'ambito dell'Assemblea Nazionale 2021 di Federmanager: "Oggi lanciamo un patto per la dirigenza, dove tutti ci impegnamo a mettere a terra questo PNRR. Un impegno importante: ci vuole una capacità di gestione di dieci volte superiore a quella che avevamo in precedenza.
"Chiediamo alle istituzioni di avere un patto per l'Italia e per la dirigenza, di sederci al tavolo, capire quali sono i progetti e dare la fiducia ai manager per attuarli. La politica deve deliberare sulle cose serie e sulle manovre che servono per dare tranquillità ai manager che poi a loro volta riescono a trasmetterla alle aziende. Un patto che serve tra pubblico e privato.
Dobbiamo superare una crisi che è ancora in corso. Oggi abbiamo acclamato il generale Figliuolo. L'Italia è da podio per le vaccinazioni e, ancora, dalla musica alla nazionale di calcio. Dobbiamo essere un'Italia da podio anche sul PNRR per fermare i problemi che abbiamo e che erano in essere anche da prima, come il divario tra Nord e Sud, il gender gap e la dirigenza.
Ho fermato il tetto degli stipendi perché non ci deve essere nella Pubblica Amministrazione. Abbiamo bisogno di trattenere i manager migliori. Questo è quello che serve per avere un Paese competitivo.
Dobbiamo anche essere l'Italia dei "sì", non dobbiamo tentennare perché, altrimenti, gli investitori sani vanno a investire in altri Paesi. Sì allo stretto di Messina, si alle grandi opere, sì alla TAV, sì all'acciaio. Dobbiamo ritornare a essere una potenza