“Fuori orario” e “Tutto in una notte”, l’impensabile che diviene realtà: due pellicole analoghe ma anche profondamente diverse
Sia Landis sia Scorsese, non hanno mai avuto tanta voglia di “giocare” con le aspettative del genere e degli stessi spettatori, offrendo dei virtuosismi di scrittura e di regia che piegano plasticamente le immagini e gli snodi delle due pellicole
Possiamo asserire senza tema di smentita che “Fuori Orario” (1986) non è solo uno dei film più brillanti e alacri di Scorsese ma anche una vera e propria pellicola culto nella sua filmografia nutrita e variegata. L’idea portante di ambientare un intero film nell’arco di una sola notte è una sfida che Scorsese vince con bravura e ha in sé richiami picareschi che virano al grottesco… Non è di notte, del resto, nella diegetica di tanta letteratura, che si snodano le storie più nascoste, imprevedibili e ricche di mistero? Un programmatore di computer di nome Paul Hackett, persona ordinaria e razionale per eccellenza, verrà catapultato in esperienze che hanno dell’assurdo e metteranno a dura prova la sua compassata compostezza iniziale. Se il Joyce dell’Ulisse dedicava un intero libro all’epopea di un solo giorno dei suoi personaggi (16 giugno 1904), Scorsese impiega ogni mezzo registico (e virtuosistico) per imprimere dinamismo all’epopea di una singola notte e delle disavventure che porta con sé per l’ignaro protagonista. La pellicola diviene un incubo allucinato e venato di ironia, iperbolico e inquieto. Se la carrellata iniziale, nell’ufficio in cui lavora il protagonista, dichiara un mestiere solido e un’arguzia visiva assoluta, muovendosi tra le scrivanie come tra i meandri di un labirinto di comune operosità impiegatizia, per poi passare a inquadrare le mani dei soggetti intenti al lavoro, allora si capisce bene che siamo di fronte a un film non comune, ricco di una forza propulsiva e di orge di espedienti visivi icastici e narrativamente eleganti. È bene accennare che, qui come in Cape Fear, viene letteralmente citato Henry Miller, nello specifico “Il tropico del cancro”… E lo stile plastico e vicino allo stream of consciousness dell’autore, ha molto di simile non solo a Céline ma anche al già citato Joyce, e trova nel film la cifra di un’espressione vicina a un flusso preconscio e caleidoscopico, sbalzato nella pellicola in maniera apparentemente non mediata, attraverso un profluvio di idee e situazioni al limite del paradossale e di una freschezza e vivacità desuete anche per chi, tra registi affini, amasse davvero osare. In realtà si capisce bene che il film intero pur apparendo sotto questa veste di spontaneismo creativo, è frutto di una costruzione a tavolino mai così minuziosa e studiata.
Sembra che Scorsese si diverta a tessere le fila di una storia ordinaria e straordinaria nel medesimo tempo registico, passando dall’iperrealismo di una città imperlata di pioggia che trae vividi riflessi di luci e insegne tali da avere del sensuale proprio come era avvenuto in Taxi Driver, alla puntuale messa in scena di un tempo ora velocissimo e isterico, ora dilatato e inquieto, che avvolge di assurdo mistero dettagli altrimenti consueti e banali. Tutti quei dettagli che ingenerano nel protagonista una sorta di angoscia presaga che sfocia poi in una serie ininterrotta di colpi gobbi del destino. Ora attraverso lo zoom, ora attraverso carrellate di avvicinamento e allontanamento, ora attraverso una ripresa che asseconda i movimenti di oggetti e soggetti fino a accrescerne la carica mobile e plastica, o attraverso panoramiche circolari e a schiaffo, Scorsese imprime alla pellicola un isterico e animatissimo senso del movimento non scevro però di un’asfissia della ragione e un apparente esilio dalla normalità. In questo contesto, come detto, l’ordinario diviene straordinario, e lo straordinario appare cosa mai così fondata e realistica nella sua messa in scena. Il vaso di Pandora è aperto e la sequela di rischi, pericoli, scomode situazioni che il programmatore vive è un insieme di trovate uniche, ora cupe ora arlecchinesche, che descrivono un contesto in cui niente è ciò che immediatamente appare: esattamente come in una sorta di neo-medioevo, la realtà veste delle maschere e ama il nascondimento; e quando le maschere calano mettono in mostra male e pericolo. Simile a un gigante organismo vivente la città reagisce ad ogni singola mossa del protagonista con contromosse che lo mettono alla prova con un carosello di contrattempi, disagi e rischi che sfociano perfino in un tentato linciaggio nel convulso finale; un organismo in suppurazione che espelle la scheggia confitta sotto la sua pelle-superficie, Paul, come un elemento estraneo. E Paul Hackett è di fatto estraneo e sempre più stropicciato e estraniato, incredulo, di fronte al debordante avanzare di un destino di malasorte che si risolve poi in una chiusa senza pari, carambolesca e da teatro dell’assurdo. L’espediente di mettere a dura prova e fino all’esasperazione un individuo ragionevole e razionale, solidamente integrato, nell’arco di una sola notte, diviene un enorme congegno registico a orologeria, con un crescendo rossiniano di disguidi e avvenimenti avversi che hanno del kafkiano… Esattamente come ne Il processo o La metamorfosi di Kafka, non ci si chiede perché l’assurdo avvenga o si manifesti, perché vive di vita propria e rigetta ogni forma di spiegazione e addentellato razionalmente fondato: esso sembra non avere un’origine seppure ha un inizio. Forse vale la pena di notare come questa black-comedy notturna, ancorché non misogina, metta in scena una sorta di continua castrazione psicologica del protagonista, attraverso l’incontro con donne che incarnano forme di perturbante… Basterebbe citare l’immagine in cui Paul, che si dà una rinfrescata nel bagno di un locale cheap, vede sul muro il graffito di un pescecane che morde un pene. Titolo originale: “After-Hours”, traducibile come “dopolavoro”. Andamento circolare della pellicola, comincia nel luogo di lavoro e finisce con un nuovo ingresso in esso, mai così improbabile e straniante, mentre albeggia. Vinse il cinquantaseiesimo Festival di Cannes per la regia.
Una curiosità: Inizialmente il film doveva essere diretto da un giovanissimo Tim Burton ma Scorsese lesse la sceneggiatura dopo la realizzazione del controverso L'ultima tentazione di Cristo e Burton rinunciò di buon grado alla regia del film quando Scorsese espresse di volerlo dirigere personalmente.
“Tutto in una notte” di John Landis (titolo originale: “Into the night”) esce lo stesso anno di “Fuori orario” (1986) e pur avendo una struttura simile al film di Scorsese (l’idea di fondo è la stessa: un’epopea di disguidi e accadimenti avversi lunga una sola notte) ha un impianto diegetico e un tocco registico ben diverso. I due protagonisti sono un Jeff Goldblum (Ed Okin nel film: ovvero il prototipo dell’uomo comune) e una Michelle Pfeiffer (Diana nel film) davvero affiatati e scoppiettanti. A oggi il film di Landis – regista anarchico e scopertamente politico anche quando il suo sembra essere un discorso che esula dalla dimensione politica dell’esistenza e dell’esistente –, non sembra aver risentito della sua età (solo anagraficamente superata) e offre un ritratto scanzonato dell’America paranoica e controversa dell’era reaganiana. La partitura del film è tesa e fitta di sorprese e rivolgimenti di trama, e sembra avere a che spartire, in quanto commedia nera, anche qualcosa con la tradizionale commedia degli equivoci, il tutto miscelato a elementi che potremmo definire di stampo quasi hitchcockiano nel calare il protagonista ignaro e dal profilo umano ordinario, all’interno di un tourbillon di eventi inaspettati e avventurosi che hanno invece ben poco di comune e lo metteranno alla prova nello sfoderare inventiva e capacità di azzardare tali da collocare la dimensione castrante della sua vita precedente nell’ambito del puro ricordo. Il protagonista conduce infatti una vita routinaria e colma di elementi simili a altrettanti luoghi comuni dell’american way of life: una moglie che lo tradisce, un lavoro che lo vede insoddisfatto e una ansiosa forma di insonnia che sarà il proscenio a un’avventura a suo modo comica anche quando belluina, colma di un understatement che, anche nei momenti più concitati e rocamboleschi, non pigia sul pedale della retorica e dell’enfasi. Interessante anche il discorso metafilmico di Landis che a un tratto presenta i due protagonisti all’interno di un set cinematografico che viene letteralmente smontato pezzo a pezzo: prima Ed cerca di fare una chiamata da un telefono posticcio che due operatori gli portano via sotto gli occhi, poi si appoggia a un muro che sembra solido ma è in realtà un altro elemento di scena, finendo per rovinare all’indietro mentre esso crolla: una sequenza che ha del chapliniano… Come a dire che il cinema è la cosa più insincera e artificiale che esiste, anche quando il suo discorso vuole farsi serio nel senso di “oggettivo”, finisce per essere solo uguale e mai identico alla realtà che narra.
Le nuove esperienze di Ed sembrano divenire sempre più assurde e irreali, in questo dedalo notturno di imprevisti e apparenze ingannevoli, doppie e anzi plurime, che lo mettono alla prova su un terreno sdrucciolo e a lui sconosciuto, ma finendo per essere più concreto, veridico e vitale in questa nuova forma che non nel suo opaco passato medioborghese. È questa una dimensione che gli consente di dare sfogo senza i legacci dell’urbanamente consentito e di una morale da nodo scorsoio, a una forma disinibita di scelte e soluzioni, inventiva e resilienza, assolutamente fuori del copione grigio, senza respiro e ripetitivo, della sua esistenza di sempre. Se le litanie esistenziali dell’uomo qualunque sono la malattia di una società improntata a valori posticci, materialismo, arrivismo, qualunquismo e mancanza di reale coraggio, allora il protagonista del film da antieroe della propria stessa esistenza diviene eroe di essa nell’arco di una sola notte; e non perché il suo sguardo sul mondo è diverso da quello di chiunque altro, ma perché la vita, con un improvviso cambio di rotta e prospettiva, lo chiama a scegliere di non essere un sonnambulo che attraversa i giorni nell’ovatta di un comportamento anodino e incapace di affrontare tutto il carico di un imprevisto che diviene legge; scozzando le carte di un’esistenza torpida e priva di attrattive, per la quale non servivano né la capacità di osare né quella di reagire agli ostacoli e alle condizioni avverse, la vita di Ed diviene il campo delle sue scelte, invece di lasciarsi scegliere da essa.
Tutto procede fuori dai canoni classici, in una forma che ibrida i generi e aggira gli stereotipi – come uso di questo regista così poco hollywoodiano anche quando sforna successi da botteghino – fino al risultato di spiazzare le aspettative dello spettatore. E il protagonista condivide con esso la scoperta dell’impensabile e un cambiamento incessante delle regole del gioco: filmico e non.
Impreziosiscono il film numerosi camei: Jack Arnold, Paul Bartel, David Bowie e David Cronenberg, John Demme, Don Siegel ed altri ancora.
Se le due diverse pellicole sono la declinazione di un ordinario che deraglia dai propri binari e dell’inatteso che diventa regola, mettendo a dura prova due vite che non l’avevano chiesto né sperato o cercato per sé, la possibile compromissione della tenuta della loro razionalità e del loro sangue freddo, nella pellicola di Scorsese è il contrappasso di un’esistenza spesa senza osare e figlia di un raziocinio asfittico che riconduce tutto alla regola del probabile e del consolidato; mentre in quella di Landis è l’occasione irripetibile di far valere il proprio coraggio e la propria capacità di scelta, sul piano di risposte a una lotta senza esclusione di colpi (anche di scena) e in un duello all’ultimo azzardo, con un’asta al rialzo dei rischi e dei possibili vantaggi. Finale amaro e grottesco in “Fuori Orario”, lieto e aperto in “Tutto in una notte”.
Per finire potremmo dire che sia Landis sia Scorsese, non hanno mai avuto tanta voglia di “giocare” con le aspettative del genere e degli stessi spettatori, offrendo dei virtuosismi di scrittura e di regia che piegano plasticamente le immagini e gli snodi delle due pellicole, al servizio di deliranti (filologicamente, la parola “delirio” significa “uscita dal solco”) espedienti picareschi, i quali scrivono e riscrivono la condotta di due nauti di uno stesso destino che non si dispiega conformemente alle mortifere situazioni che erano la norma prima di una notte tale da inverare una poiesi dell’inatteso – sia sul piano degli accadimenti sia su quello della capacità di farvi fronte.
Parafrasando Scheler: la vita è sempre più della somma dei suoi singoli istanti… E i due registi sembrano volerlo ribadire cambiando drasticamente le carte in tavola di due vite spese all’insegna di una sommatoria di gesti e comportamenti uniformi e senza sobbalzi.