20 Novembre 2025
Nella nostra coscienza collettiva albergano date che divengono ben presto un mantra ineluttabile. Tredici novembre duemilaquindici è una di queste. Una macchia di sangue indelebile nell’ampio lenzuolo europeo del Ventunesimo Secolo, apparentemente immacolato ma tratteggiato da tante di queste macchie, che ne hanno nel tempo rivelato i contorni impuri, fatti di violenza, errori e dolore. Questa coscienza tenta di rinnegare, facendo sì che certe immagini possano essere completamente condannate a una amnesia collettiva. Il dolore non è una faccenda semplice da ricordare, e soprattutto certi generi di dolori, certe radici del male.
L’Europa aveva già avuto la sua personale stagione di attentati terroristici; più Nazioni, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, avevano conosciuto il male inflitto dall’instabilità ideologica di democrazie non ancora mature (l’Italia lo sa bene). Eppure, tutto era ormai passato. Sicché nuove generazioni sono giunte, nuovi cervelli hanno accaldato la coscienza europea, e quella violenza poteva essere relegata a certi film cruenti prodotti a Hollywood.
Invece, quel tredici di un novembre particolarmente mite per le temperature stagionali di Parigi, un’altra macchia stava per allargarsi in questo manto. Una macchia grande quanto un piatto, come la ferita mortale inferta da un kalashnikov. Parigi fu presa in ostaggio in diversi punti strategici della città quella sera, perché lo squadrone della morte era stato frammentato in tre bracci armati che agivano all’unisono, ognuno incaricato di colpire lo Stade de France, i locali del centro e il teatro Bataclan. E, mentre l’inferno piombava nella città della Senna, uno dei terroristi — appena ventenne, nato e cresciuto in Europa — se la dava a gambe.
Salah Abdeslam, una vita travagliata e caratterizzata da una serie di malevole intenzioni: figlio di due immigrati marocchini, aveva avuto dalla società europea tutto il possibile per abbracciarne e rispettarne la cultura. Aveva studiato nelle sue scuole. Parlava la sua lingua. Aveva trovato lavoro per l’azienda dei trasporti di Bruxelles, salvo poi essere cacciato per le numerose assenze e un arresto per rapina. Aveva gestito un bar, per poi doverlo chiudere per possesso di sostanze stupefacenti. E poi, la via della morte. Della radicalizzazione.
Fin troppo spesso l’analisi dei soggetti radicalizzati si affievolisce dinanzi al tema della mancata integrazione. La giustificazione è sempre banalizzata e si inserisce in un quadro di disagio provato dai soggetti che assorbono i dettami dello Stato Islamico. Non è così semplice. Non è debolezza né manipolazione: è semplicemente odio.
Qui occorre fare una precisazione sottile, necessaria per far sì che tutti comprendano almeno una parte della complessa macchina di reclutamento delle forze islamiste. Anzitutto, non possiamo sovrapporre Al Qaeda allo Stato Islamico. La seconda è figlia della prima, sì, ma se ne discosta per metodi e soggetti di reclutamento. In Al Qaeda vivono e respirano radicali che hanno assorbito completamente i valori e lo spirito della jihad, guerra santa contro gli infedeli. In questa organizzazione non è difficile trovare tra le fila soggetti che hanno una cultura della strategia e della guerra più fine e spietata. Nello Stato Islamico, invece, la base è generalmente più ignorante e imbevuta della propaganda senza averla compresa davvero: sono spugne vuote che assorbono l’acqua, non seguono nel dettame il Corano, fanno utilizzo di alcool e sostanze stupefacenti. Mentre in Al Qaeda sopravvivono i fanatici e i convinti, nell’ISIS la componente che tiene tutto assieme è più irrazionale e improntata sull’odio, sulla necessità di far del male, di lasciare del sangue.
Salah fa parte di questa seconda categoria: il suo reclutamento avviene per mezzo di un conoscente, Abdelhamid Abaaoud. Anche lui, come Salah, è nato e cresciuto in Europa. Non solo. Abaaoud è figlio di un immigrato marocchino che in Europa è riuscito a costruire una piccola fortuna, divenendo un piccolo imprenditore nel settore dell’abbigliamento. Abaaoud frequenta le migliori scuole private; i genitori, faticosamente, gli impongono una strada che sperano possa renderlo un uomo di successo. Ma lui si dà quasi da subito ad episodi di microcriminalità. Torna in Marocco e da quel momento comincia il suo vero cammino di radicalizzazione: raggiunge la Siria e poi, da lì, diventa uomo di fiducia dello Stato Islamico, pronto a trovare altri come lui, ragazzi che l’Europa ha accolto ma che la odiano così profondamente da volerla lacerare.
Verrà ricordato come “il terrorista dalle scarpe arancioni” quella notte. Salah non è il solo a sopravvivere al tredici: anche Abaaoud, dopo aver ammazzato, fugge e sale sulla metropolitana della stazione Croix de Chaveau, a Montreuil. Non è ancora finita per lui e il suo compagno. Non hanno rinunciato alla carneficina né intendono concluderla là. Hanno in mente un piano: un altro attentato. Altre morti. Stavolta vogliono coinvolgere anche i bambini; l’obiettivo è il quartiere d’affari e un asilo. Viene fermato. Morirà il diciotto novembre, accerchiato da un’operazione speciale a Saint-Denis.
E l’odio continua. Salah cercherà riparo da degli amici, e la sua fuga reggerà per qualche mese, si scontrerà con un altro attentato, quello a Bruxelles, finché non finirà in prigione e incarnerà tutto il sangue di quella notte.
La beffa arriverà quest’anno, quando il suo avvocato, una certa Olivia Ronen, spiegherà che Salah vorrebbe incominciare un percorso di giustizia riparativa. Dopo neppure dieci anni e con una vita di crimini e radicalizzazione alle spalle, per la Ronen sarebbe pronto a chiedere scusa.
Con quale coraggio, signora Ronen? Fatico a comprendere una giustizia che si accanisce al punto da confondere il giusto processo con ambigui tentativi di narrazione. Ad un certo punto, dovrebbe giungere un limite. Stavolta, offerto direttamente dall'Intelligence francese che lo ritiene ancora radicalizzato. Proprio Salah era stato scoperto recentemente in possesso di una chiavetta USB contenente propaganda jihadista. E proprio di recente la sua ex ragazza è stata arrestata perché stava architettando un attentato in Francia. Un altro.
Ancora, con quale coraggio?
Non riusciamo a empatizzare sufficientemente coi sopravvissuti di atrocità come queste. Il nostro cervello filtra l’informazione e fa sì che tutto il focus vada sui terroristi, sugli aspetti strategici, sui moventi, sul numero delle vittime (neppure le loro storie).
Ma i sopravvissuti portano addosso un marchio ancora più profondo e incalcolabile. Per privacy, i loro nomi non vengono esposti, le loro voci o i volti sono pixellati da trafiletti di stampa. Eppure, le loro ferite sono fisiche, psicologiche, eterne. Non c’è scampo. Nel buio della sera, nei rumori forti di auto che sfrecciano via, nella calca di un ristorante, di uno stadio, di un concerto. Da una morte sfiorata in questa maniera non ne esci più. Loro lo sanno bene. Il nostro parlarne poco non li aiuta: li fa sentire degli emarginati.
Quello che ho imparato negli anni, toccando tematiche così delicate, è che un genitore, un figlio, un familiare spesso ha molta più voglia di parlare di chi gli è stato strappato via di quel che si può pensare.
Non è una volontà autolesionistica di rivivere la morte; al contrario, è una maniera per esorcizzarla. Far sì che quel figlio esista ancora, per qualcuno. Che qualcuno lo noti.
Che guardi la sua fotografia, le fossette del viso, il colore dei suoi capelli. Che qualcuno chieda. Far sì che quella esistenza resista nella coscienza collettiva, perché altrimenti si commette il peccato più grande: rendere la morte una forma di colpa e vergogna. Perché è una tragedia, un argomento triste, e quindi qualcosa da scansare, da evitare. Ma ogni qualvolta i silenzi predominano certe scene, facciamo sì che l’occulto della macchia si allarghi, non lasciando scampo neppure ai familiari, e di certo ai sopravvissuti.
Questo lenzuolo è diventato impuro, sporco, pieno di macchie e di strappi. Il tredici novembre duemilaquindici abbiamo fatto sì che diventasse possibile l’idea di morire in un bistrot, sotto gli occhi incattiviti di un estraneo. Abbiamo normalizzato andare tra i mercatini di Natale con accortezza, reso le città ancor più cassaforti, eppure insicure. E, infine, abbiamo commesso il peccato più grande: abbiamo negato che si vedesse quel lenzuolo per ciò che davvero era. Lo abbiamo riposto, per non raccontarci. Ci siamo sfuggiti, per difendere lo stesso male che alberga in Europa, nei suoi quartieri senza via di scampo, nelle soffocanti strade in cui più di qualcuno si fa beffa di quel lenzuolo.
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