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L’aereo che non doveva cadere: Montagna Longa, il mistero di un disastro mai chiarito

Era il 5 maggio 1972 quando il volo Alitalia 112 scomparve dai radar. Da allora, tra relazioni occultate, scatole nere manomesse e piste militari resta una storia che nessuno ha mai voluto riscrivere. Fino ad ora

24 Ottobre 2025

L’aereo che non doveva cadere: Montagna Longa, il mistero di un disastro mai chiarito

Una sera di maggio a Palermo.

C’è già il profumo dell’estate che sopraggiunge dal mare e invade le case.

A breve, la Democrazia Cristiana sarebbe tornata alle urne e il Governo Andreotti II avrebbe preso posto a Palazzo Chigi.

Chi è sul Douglas DC-8 dell’Alitalia, sta tornando anche per questo: le elezioni politiche del 1972.

Ma quella sera, Montagna Longa si illuminò di un bagliore improvviso.

Poi, il silenzio.

Il volo Roma–Palermo, si era appena schiantato contro la montagna, a pochi chilometri dall’aeroporto di Punta Raisi.

La voce del comandante Roberto Bartoli fu l’ultima ad arrivare alla torre di controllo:

“Palermo, AZ 112... è sulla vostra verticale e lascia 5.000, riporterà sottovento per la 25 sinistra.”
“Ricevuto. Il vento è calmo”, rispose il sergente maggiore Terrano.

Poi, nulla più.

Secondo l’inchiesta ufficiale, il volo AZ112 precipitò per errore del pilota. Un volo controllato contro il suolo, un classico “CFIT”: l’aereo era regolarmente in rotta, ma scese troppo, urtando la montagna a 935 metri di quota. Nessuna esplosione in volo, nessun guasto. Solo una tragica disattenzione.

Era una spiegazione semplice, perfetta nella sua pulizia burocratica. Ma bastava ascoltare i nastri, leggere i tracciati radar, osservare i tempi di comunicazione per capire che qualcosa non tornava.

I piloti Bartoli e Dini erano veterani.
Avevano ore e ore di volo su quella stessa tratta. La loro ultima comunicazione li posizionava esattamente sopra la verticale di Punta Raisi, eppure — secondo la relazione — pochi secondi dopo si sarebbero trovati dieci chilometri più a sud, contro la montagna.

La scatola nera non funzionava.
Il radar di Palermo si spense all’improvviso.
Il tracciato di volo scomparve.

E poi c’erano le voci: i testimoni nei dintorni di Carini che dissero di aver visto l’aereo “in fiamme già in aria”, molto prima dell’impatto. Voci mai raccolte in aula, sepolte nei verbali.

Fu in quel silenzio che cominciò la battaglia di una donna: Maria Eleonora Fais, sorella di Angela, segretaria di redazione de L’Ora e Paese Sera, morta a bordo di quel volo.

“Non potevano aver sbagliato tutto così,” ripeteva. “E se fosse stato un attentato?”

Quello non era un volo qualsiasi.
A bordo c’erano persone che, in un’Italia percorsa da trame oscure, non erano comode per nessuno.

C’era il sostituto procuratore generale Ignazio Alcamo, l’uomo che aveva disposto il soggiorno obbligato per Francesco Vassallo, costruttore vicino alla mafia del Sacco di Palermo.

C’era Franco Indovina, regista, ex compagno di Laura Betti, che stava lavorando a un film su Enrico Mattei, un altro aereo esploso dieci anni prima in circostanze ancora oggi opache.

C’era Angela Fais, giornalista d’inchiesta, amica di Giovanni Spampinato, e più volte minacciata.

E poi un ex medico legato al processo sulla strage di Portella della Ginestra.

Tutti su quel volo. Tutti diretti a Palermo due giorni prima delle elezioni del 7 maggio 1972.

Nel 2012, un generale dei Carabinieri che nel disastro aveva perso il fratello trovò una foto in un vecchio archivio: mostrava l’ala del DC-8, con tre fori perfettamente circolari. Colpi d’arma da fuoco?

L’immagine riaprì un fascicolo mai chiuso davvero.
Insieme, emerse un documento dimenticato: il rapporto del vicecapo della Polizia, Giuseppe Peri.
Secondo quella relazione, l’aereo fu colpito durante un’esercitazione militare, forse connessa alla NATO, forse ad ambienti eversivi interni.

Peri parlava di “proiettili”, di “esplosione in volo”.
Poi, il suo rapporto sparì.

Tre giorni dopo l’incidente, si sarebbe votato. E la destra, in quelle elezioni, stava risalendo vertiginosamente.

Nel 2023, cinquantun anni dopo, i familiari delle vittime hanno chiesto ancora una volta di riaprire le indagini. La magistratura ha risposto di no.

“Non ci sono elementi nuovi,” scrive la procura.

Eppure, qualcosa di nuovo c’è: una relazione tecnica del professor Rosario Marretta, secondo cui tracce di esplosivo sarebbero compatibili con una detonazione a bordo.

Ma anche quella, per ora, è finita in un archivio.

Della Montagna Longa oggi non resta che una croce di ferro e un nome inciso sul metallo.
115 nomi. 98 orfani. 50 vedove.

Ogni anno, il 5 maggio, un piccolo gruppo di persone sale fino in cima, tra le rocce e il vento.
Portano fiori, accendono candele, leggono i nomi.

Nessun politico, nessun rappresentante dello Stato.

La croce brilla al tramonto, e sotto, le pietre annerite sembrano ancora calde.

Questo è l’inizio di un’inchiesta più ampia.
Chiunque abbia ricordi, documenti o testimonianze può contattarmi a contact@vanessacombattelli.com

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