Coronavirus, Crisanti: 'Lavorare su terza ondata per far sì che non arrivi'

Parla Andrea Crisanti, Professore Ordinario, Direttore del Dipartimento di Microbiologia dell’Università degli Studi di Padova.

Professore, siamo ormai travolti dalla seconda ondata dell’epidemia, in Italia si registrano 30.000 casi al giorno, lei da agosto sosteneva che bisognasse prepararsi con misure di prevenzione e tracciamento adeguate, ma così non è stato. Ora cosa possiamo fare?

Guardi l’unica cosa di cui preoccuparsi ora è la terza ondata. È su quella che dobbiamo lavorare, per far sì che non arrivi. Le restrizioni messe in campo dal Governo avranno sicuramente un impatto, anche se non calcolabile, ma poi? Sa qual’è il rischio? Di avere continui lockdown con conseguente abbassamento dei numeri, riaperture, nuovi contagi e quindi ulteriori lockdown. Ho sostenuto fin dal primo giorno che senza salute non ci può essere una società che sia economicamente sana. Pensi al Delta del Po, alla maremma, al litorale laziale, alla pianura Pontina: finché non sono state bonificate erano zone non salubri e non produttive. Il punto non è chiudere i ristoranti o i bar oggi, e capisco le proteste dei ristoratori, ma è far sì che non continuino ad aprire e chiudere, perché è quello che veramente distrugge le attività economiche.

Il Governo ha identificato dei parametri in base quali si decide lo “stato di salute” delle Regioni e le eventuali zone rosse, arancioni o verdi. Si tratta di ventuno indicatori, uniti al famoso RT, cioè l’indice di contagio, cercando di semplificare. Le sembra possa funzionare come scelta?

Secondo me alcuni di questi indicatori sono sbagliati e assolutamente fuorvianti, il caso tipico sono le rianimazioni. La percentuale di letti occupati in rianimazione, come parametro per calcolare il rischio, introduce un effetto distorsivo nel sistema perché, di fatto, chi ha più letti permette all’epidemia di correre di più. Faccio un esempio: supponiamo di avere due regioni con lo stesso numero di abitanti e un numero di letti disponibile in rianimazione diverso; chi ha meno letti farà scattare più velocemente i meccanismi di controllo perché raggiungerà la soglia di saturazione prima. Quindi, paradossalmente, chi ha più posti letto rischia, saturandosi più tardi, di far peggiorare l’epidemia. Gli indicatori più validi dovrebbero essere quelli che tengono in considerazione la densità di popolazione e la percentuale di positivi. Una regione che ha una densità di popolazione bassa, ma una percentuale di positivi alta, mostra che vi sono comportamenti o una struttura sociale particolare che non permettono il controllo dell’epidemia, al lato opposto potrebbe esserci una regione con densità alta ma pochi casi, questo significa che il sistema è in grado di controllare l’epidemia. Non possiamo pensare che una regione non abbia effetti a catena sul resto del Paese.

Lei, da mesi propone al Governo il Piano dei Tamponi, ovvero intensificare l’utilizzo dei tamponi molecolari fino a 400.000 al giorno, come strategia per uscire dall’epidemia. Il Governo però sembra sordo. L’Istituto Superiore di Sanità e il Ministero della Salute inoltre chiedono i test rapidi come prima scelta per chi ha pochi sintomi, e test molecolari solo ai casi sospetti che presentino sintomi, insomma una sorta di “linee antispreco”. Non proprio come la pensa lei...

Guardi, i test rapidi hanno una sensibilità che va, sulla base dei risultati pubblicati dall’Istituto Spallanzani stesso che li ha validati, dal 20 al 70 %, quindi non sono di certo applicabili in tutte le condizioni in cui l’obiettivo è interrompere la trasmissione. Già tante persone negative al test rapido sono morte di Covid o sono responsabili di aver disseminato l’infezione nelle RSA (residenze per anziani). Poi per carità, ci sono situazioni in cui i test rapidi come primo screening vanno bene.
Comunque non credo che i casi caleranno in maniera rilevante nei prossimi venti giorni, ci sono troppe persone infette in giro, va abbassato questo numero e poi si ragiona.

Lei questo sistema per combattere l’epidemia lo chiama “network testing”, di cosa si tratta? È diverso dal “contact tracing”?

Il “contact tracing”,cioè quel sistema in base al quale chi risulta positivo viene contattato dagli operatori, gli vengono chiesti nomi di tutte le persone che ha visto e può aver infettato, che a sua volta vengono contattate e monitorate, è un metodo che, nel caso di grandi numeri, è praticamente impossibile da rispettare. Ha una soglia molto bassa di affidabilità per la sua complessità: la logistica che richiede, i problemi di affidabilità della fonte, che potrebbe dimenticare i nomi di alcuni contatti o addirittura ometterli, com’è successo in una prima fase dell’epidemia quando ancora i casi erano pochi. Insomma non è adatto per la situazione in cui ci troviamo. A Vo’ le autorità regionali hanno impiegato risorse importanti nello sforzo di identificare il paziente zero con una efficacia secondo i nostri dati del 50%. Poi sempre a Vo’ abbiamo  dimostrato che un approccio diverso, ovvero il "network testing" ha un’efficacia del 100% e che quindi andrebbe replicato su scala nazionale. In sostanza ognuno di noi vive in uno spazio di interazione, come un condominio, ed è quello che va testato. Se io ad esempio sono positivo, vanno intercettate tutte le persone del mio edificio, i colleghi di lavoro in un piano, i parenti nell’altro, con interazioni orizzontali e verticali. La catena di trasmissione sta tutta lì dentro: c’è la persona malata, ci sono le prime persone infettate e quelle infettate successivamente. Testare loro non richiede nessuna informazione da parte dell’individuo. È un approccio che non fa conto sull’affidabilità della fonte, non richiede tutta la logistica del “contact tracing” a valle, e ha una efficienza estremamente elevata, basandosi sul testing di tutti i potenziali contatti, e non facendo affidamento sulla memoria del singolo. Varianti di questo approccio hanno permesso alla Corea, a Taiwan, al Vietnam, alla Nuova Zelanda e all’Australia di contenere l’infezione.

E sa cosa le dico anche? Che l’Inghilterra potrebbe sorprenderci e uscire prima della pandemia. È un paese che ha una grande flessibilità, gli inglesi non sono dogmatici e sono in grado di cambiare strategia velocemente. Stanno facendo il lockdown, che in sostanza prima non avevano mai fatto e stanno utilizzando il “network testing” sull’intera città di Liverpool, questa volta con i test rapidi.

Cioè?

Faranno 400.000 test rapidi ogni settimana. Sapendo bene infatti che il 30 o il 40% dei positivi può sfuggire al primo campionamento- visto che il test rapido è molto sensibile alla carica virale- ripetere il test settimanalmente permetterà di intercettare chi magari al primo giro aveva una carica virale bassa, e che invece dopo una settimana ce l’ha più alta ed è quindi molto contagioso. Ecco che così ne intercetti molti di più. Detto questo, il test rapido non sarà mai in grado di abbattere completamente l’infezione in tutta la città di Liverpool. Quindi, dopo aver abbattuto  la maggior parte dei casi, per i residui utilizzeranno il “contact tracing”, testando tutto lo spazio vitale dei malati, che a quel punto saranno molti di meno.

Tra l’altro l’Inghilterra dai dati sembra aver già raggiunto il picco. Da 4-5 giorni i casi stanno calando, è vero che ne hanno ancora 20.000 al giorno ma molti sono accumulati dal passato, sembra che l’epidemia si stia abbassando. Gli inglesi ne usciranno prima, e meglio.