50 anni fa, il "Rumble in the jungle", un match che si protese nell'eternità delle cose irripetibili

Un'altra epoca, ma quel match resterà per sempre. Il pugile più perfetto di sempre avrebbe sconfitto quello più potente di sempre in uno Zaire in transito fra società tribale e industriale. Un evento nato come leggendario, e che tale resterà in eterno

Mezzo secolo fa, un'epoca fa, uno di quegli eventi incisi dal coltello della mitologia nel grande albero Dell'umanità. Una storia di sport, ma se c'è di mezzo Muhammad Ali è fatale che tutto si dilati a dimensioni tragiche, geopolitiche, perfino mistiche. Ali fu il rap di là da venire e fu la globalizzazione in largo anticipo. Sovrumano, senza discussioni, nel bene e nel male e siccome tutti hanno già cominciato a parlarne, proviamoci anchr noi, se possibile con maggiore accuratezza storica.

Il 30 ottobre del 1974 c'è già la tivù a colori, ma non in Zaire e non in Italia: là giocano ritardi per forza strutturali, qui quelli mentali del PCI di Berlinguer, uno che riposa su una assurda rendita agiografica, e del repubblicano La Malfa cui è andata meno bene, resta in giusta fama di plitico mediocre e un po’ suonato.

Ma, a proposito di suonati. George Foreman va giù come un dinosauro, un grattacielo, un albero nella foresta africana. Va giù come il muro delle sue certezze, sono il più forte, il più terribile, il più spietato combattente di ogni tempo: mezz'ora, ed è finito tutto e tutto è perduto. “Per giunta contro il più grande sbruffone di tutti i tempi, contro Ali”. Non ci sarà mai un pugile di apocalittica potenza come Foreman, eppure non ce n'è un altro destinato a passare alla storia per la sua sconfitta invece che per la furia con cui annientava tutti. Bastava un colpo solo, non importa quale e a chi. Basterebbe anche oggi che, a 75 anni, può ancora permettersi di catapultare lontano il disgraziato che gli tiene il sacco, pesante due volte il normale. Non ha più quei baffetti da damerino, unica cosa quasi frivola di una gioventù oscura, non ha più quell'arroganza da campione e la faccia gli si è amabilmente deformata come quella di Toro, il mostro marino di Braccio di Ferro che parlava così: “Adesso Toro ti muore, adesso Toro muore te”. Ma George no. Prima sì, faticava a parlare, anche lui, ma adesso parla fin troppo sciolto. Dopo essere stato pugile, è stato predicatore e industriale, businessman. E poi è tornato pugile a 45 anni suonati. Cose che forse solo in America potevano succedere.
Le tante vite di un mostro. “Sferrava colpi che non credevo possibili in un essere umano” avrebbe scritto Muhammad Ali nella sua autobiografia. C'è un momento, l'ultimo, del match contro Joe Frazier, nel 1973 a Kingston, Jamaica, in cui diventò Campione. Frazier era in carica, faceva il brutto muso, ma a vederli faccia a faccia prima dell'inizio si capiva che pure lui, Smokin' Joe, teneva paura. Certe cose traspaiono, traspirano. L'odore del terrore. Joe crolla sei volte in meno di due round e George lo supplica brutalmente, “Joe, santo cielo, sta' giù, finirò per ucciderti”. Anni dopo, Frazier avrebbe ricordato quell'incubo con l'umorismo di un bluesman: “George mi trattò come uno yo-yo”. Nell'ultima scena c'è un colpo di Foreman, un uppercut, e Frazier lì per lì resta fermo, come marmorizzato; poi tutto il mondo vede una cosa orribile, vede il suo corpo che si stacca da terra, vola per aria e rovina penosamente. Joe in quell'incontro pesava 103 chili. Un anno dopo a Caracas Ken Norton, l'unico altro, con Joe, a sconfiggere Ali, sarebbe finito soffiato via da botte che non sembravano neanche botte, sembravano solo spintoni. Tutti i pugili temevano di finire ammazzati salendo con Foreman. Anche quando Ali esce dallo spogliatoio dello stadio XX Maggio di Kinshasa, il suo equipaggio sembra avviarsi ad una commemorazione funebre e lui come un profeta li deve riscuotere: “Perché siete così tetri? Di cosa avete paura?”. Che ti ammazzi, Muhammad. Tu sei orgoglioso, non ti arrenderai mai, ma quello è capacissimo e non aspetta altro. Tutti ricordavano la cosa terribile che aveva confidato lo sparring Bossman Jones ad Ali che gli chiedeva quale fosse il colpo migliore di Foreman: “Non ha un colpo migliore. Ha il pugno ovunque, si chiama così perché ovunque arrivi ti spacca qualcosa, un muscolo, un osso, quello che vuoi, ma ti storpia”. Alle Olimpiadi di Città del Messico Foreman è ancora un acerbo dilettante di 19 anni ma questo non lo rende più umano, l'italiano Giorgio Bambini ha la sventura di sfidarlo, il primo diretto che sembra un tram lo sfiora e lui sente fischiare l'aria e allora si butta per terra. “Alzati, vigliacco!”. “Mica son scemo, capo, quello mi stacca la testa!”.

Di colpi da staccare la testa, e le braccia, e il cuore dal petto, big George quella notte ne scaglia a centinaia: Ali li assorbe dalle corde, ha abituato il suo corpo a venire pestato senza pietà, una strategia da tutti considerata demenziale, ma adesso funziona ed è l'unica possibile: all'ottavo, Foreman non si regge in piedi, disidratato di forze, di furia, ad Ali basta una combinazione secca, precisa, per vederlo frenare "come un maggiordomo sessantenne che ha appena ricevuto una brutta notizia', scriverà, esagerando, Normandia Mailer. Nel suo bunker, più sicuro della folla esaltata dello stadio, munito di circuito chiuso, il capo supremo dello Zaire assiste attonito e si che ne ha viste, ne ha combinate anche di atroci Mobutu se se seko kuku nbendu wa za banga: ufficialmente è il grande capo che passa nel fuoco di vittoria in vittoria eccetera, solita esaltazione di un tiranno che personalizza un Paese immenso, protetto dell'occidente francoamericano che non guarda ai suoi metodi sanguinari; ma il senso idiomatico è "il gallo che non risparmia nessuna gallina". Prima dell'incontro, sofferente di complicazioni e colpi di scena drammatici e infiniti, una sceneggiatura reale che supera la realtà, Kinshasa è una polveriera: Mobutu fa imprigionare alcuni criminali a casi nei sotterranei dello stadio del match, ne fa uccidere cento nei modi più efferati e lascia tutti gli altri liberi: che girassero pure a raccontare cosa avevano visto. Kinshasa per il tempo dell'evento diventa più sicura del principato di Monaco. Tutto è irrimediabilmente trucidato in questa faccenda. Il grido ufficiale scelto dagli zairesi è “Ali boma ye”, Ali uccidilo. Se si pensa che l'organizzazione vede tra i protagonisti un ex criminale Don King, riciclatosi impresario di pugilato dopo essere uscito da galera per avere ammazzato un debitore a mani nude. Ex? King non smetterà mai di distruggere pugili in oltre 40 anni di attività oltre ogni limite legale e spesso criminale. Ma è anche quello che prima dell'incontro, organizzato con una borsa di 5 milioni a testa, dei quali era completamente sprovvisto, e fatti caricare sul conto del preoccupante Mobutu, riesce a metter su un festival di musica internazionale con tutti i più grandi, da James Brown a Myriam Makeba a una serie di artisti sia internazionali che locali. Anche loro attratti come falene alla luce di Ali, che dispone di altri metodi, meno cruenti per domare i mostri ma più spettacolari e li dimostra davanti a un miliardo di spettatori via satellite. Alle 4 di notte, ora locale il mondo assiste ad una lezione di scienza e di strategia pugilistica che ha del mistico, una combinazione di fiducia in se stesso e di capacità sportive inumane. Qui davvero Ali dimostra di essere altro da un pugile per doti tecniche, mentali, tattiche, non sembra neanche un incontro di boxe. È altro, qualcosa che si protende nell'eternità delle cose irripetibili. Mezz'ora di combattimento ed è tutto finito, il “rumble in the jungle” - Ali ha pensato anche allo slogan per lanciare la sfida – si consegna all'eternità sotto un diluvio di proporzioni, di violenza mai viste. “Sono io che l'ho ritardato, prima dovevo abbattere George”, si vanta Ali.

Il fatto è che George, mostro, ci era nato. In Texas, a Marshall, cresce storto, da un padre che non è suo padre, la solita storia dei pugili predestinati, 40 volte dentro e fuori dal riformatorio quando non ha ancora 12 anni. Si metteva all'angolo della strada e pretendeva il pizzo da chiunque volesse attraversare. “Non gli servono armi, è lui l'arma” spiegava il fratello. Poi, si sa come vanno a finire queste cose: o in quel vicolo di crepi, o qualcuno ti salva, ti sbatte fra 4 corde e il resto è storia. La storia di George, quest'uomo semplice, brutale, è complicata come un arabesco. Distrugge tutti in pochi secondi, diventa campione, perde tutto in mezz'ora in Zaire, crolla in una depressione micidiale, cont. Nel 1977, dopo un incontro pessimo con il mediocre Jimmy Young, sente le voci: “E' Dio che mi sta chiamando, mi sta dicendo che devo cambiare vita”. No, è la disidratazione seguita da ipertermia che fa di questi scherzi, ma nessuno si fida a spiegarglielo: il pugno ovunque, George ce l'ha sempre e, quando lo fa scattare, non conosce amici o nemici. E poi siamo pur sempre in America e forse tutti i torti Big George non ce li ha se davvero cambia vita, dà via la villona, i 47 televisori, le fuoriserie, le belve da giardino, diventa predicatore e riempie la sua chiesa: adesso è un uomo amabile, amministra l'amore, la pace, la comprensione dopo aver spaccato mostri come lui. L'incontro con Ron Lyle, nel '76, fu un cinema. Ron era un altro di quelli violentissimi, un ex marine ed ex galeotto, si diceva perfino avesse ucciso un uomo, non ha paura di nessuno, neanche di Big George. Cominciano a pestarsi come due colossi in un vicolo, quando uno è al tracollo trova la forza di un'ultima mazzata e al tappeto ci finisce quell'altro. Va avanti così per 5 round, due atterramenti a testa, una cosa incredibile. Poi George s'incazza davvero, trova un varco, sfonda faccia e torace di Ron che si affloscia per non rialzarsi più. Sylvester Stallone, a bordo ring, prende nota.
George si allenava a Kinshasa prima di sfidare Ali che a distanza gli urlava: “Tu sei il toro, io il matador”. George si allenava al sacco potenziato, quello da 3 quintali: glielo teneva un piccoletto, Dick Sadler, ad ogni mazzata di Foreman rimbalzava da terra dicendo: “Aye”. Dopo un po' il sacco aveva dentro un buco grande come un cocomero. Ma adesso George è in chiesa, predica l'amore e tutti lo amano. Lo ameranno anche in versione businessman: lancia una linea di elettrodomestici a suo nome, la “George Foreman Grill”, ne vende oltre 100 milioni, fa ancora più soldi che menando. Ma la boxe è nel suo sangue, che sia versato o, più di frequente, fatto versare. Così nel 1987 ritorna e nel 1994, a quasi 46 primavere, dopo una seconda carriera arabescata, si ritrova campione contro Michael Moorer: è obeso, lento, vecchio ma il pugno ovunque è sempre e, come sempre, ne basta uno, uno solo. Ovunque per dovunque.

Dicono che Tyson, negli anni migliori, sia sempre stato attento a non incrociarlo, “quell'animale mi uccide”. Il vecchio George lo sfidava, dove sei, fatti trovare, sto venendo a prenderti, ma Mike da quell'orecchio lì non ci sentiva: lui poteva abbattere, ma George travolgeva come un angelo vendicatore. George è nonno e bisnonno, cinque dei suoi dieci figli (che una volta riportò indietro da una moglie fuggiasca grazie all'intercessione di alcuni narcos colombiani) si chiamano come lui, “così non dovrò lambiccarmi quando avrò perso la memoria, succede a tutti i pugili suonati”. È un pastore, un pugilatore, un industriale, un mostro. Lo odiarono: adesso lo adorano. È l'ultimo superstite di una stagione irripetibile nella boxe, quando erano re, re guerrieri. È l'ultimo dei sopravvissuti, di quell'epoca faranoica della boxe tutti gli altri sono andati. George si diverte ancora a pestare il sacco, e chi lo vede ancora si terrorizza. C'è una scena in “Rocky Balboa”, del 2006, scritto da Stallone sulla falsariga del ritorno senile di George sul, ring. Quando Rocky, nel suo ristorante, riceve i manager del Campione, Mason Dixon e per un attimo deve allontanarsi; allora i due marpioni sottovoce, confabulano: “Fortuna che questo ormai è vecchio, se lo incontrava all'apice Mason era morto. Morto, era morto”.