Sinner: "Sono italiano al 100% anche se parlo in dialetto tedesco, mai stato in discoteca. L'amore giusto non distrae"
"Evito distrazioni come Sanremo, i migliori tennisti hanno tutti moglie e figli": questo e tanto altro nell'intervista che il numero 3 al mondo ha rilasciato a Vanity Fair
I miei colleghi hanno scommesso che avrei cavato un piccolo ragno dal buco di questa intervista. La fama della sua discrezione la precede. È solo timidezza, o c’è anche dell’altro?
«Cioè?».
Non sembra esattamente a suo agio nel raccontarsi.
«Mi piace parlare di tennis, e dello sport in generale. Ma se si riferisce alla vita privata, è vero, voglio mantenerla tale. Voglio proteggere le persone che mi sono più vicine, tenendole fuori da tutto ciò. Lo vivo come un piccolo compito da svolgere, quasi un dovere: mi hanno aiutato, da giovane, ad acquisire sicurezza in me stesso, e oggi in qualche modo voglio tutelarle».
Non è timidezza, dunque?
«Potrei anche parlarne. Ma le persone che mi sono vicine la pensano come me, su questo tema. Perché sono molto simili a me: ci capiamo con uno sguardo, in un secondo».
Ha dichiarato che non le piacciono le interviste perché le chiedono sempre le stesse cose. Mi dia una mano: mi suggerisce una domanda che non le hanno mai fatto e che vorrebbe le venisse finalmente fatta?
«Non c’è... Quando fai tante interviste e ti fanno le stesse domande, e ti tocca dare sempre le stesse risposte».
Non potrebbe variarle un po’, le risposte?
«Sto sempre attento a quel che dico, o almeno ci provo. Rispondere in modo non del tutto giusto, o vero, sarebbe come buttarmi nel fuoco. Le risposte sono sempre quelle perché sono onesto, mi piace andare dritto al punto».
Eccole una domanda diretta, allora: oggi è lei «quello da battere»?
«“Quello da battere” è una parola grossa. Sono il numero 4 al mondo. Per il momento. Certo è un buon risultato, ma adesso devo ancora lavorare, prepararmi a tutto, perché ormai gli avversari mi conoscono bene, anche le mie debolezze. Sono uno di quelli da battere, diciamo».
(Sinner è diventato numero 3 dopo la vittoria del 18 febbraio a Rotterdam, ndr).
Gli altri chi sono?
«Zverev e Medvedev stanno giocando molto bene. Carlos (Alcaraz, ndr) ha vinto già due Slam e ha due anni meno di me. E poi c’è Nole (Đokovic, ndr). Nole è Nole».
A proposito di debolezze: Nicola Pietrangeli ha detto che per ora non ne vede in lei. Lei pensa che ce ne siano?
«Sicuramente sì. Posso gestire ancora meglio certi momenti di difficoltà, c’è ancora molto che posso imparare dai miei errori. Ora sto giocando bene, ma arriveranno momenti un pochettino più difficili: è importante lavorare adesso per affrontarli preparati».
Si dice che nel tennis ogni giocatore abbia due avversari: quello che ha di fronte, e sé stesso. Lei quale dei due teme di più?
«È vero: alle volte possiamo davvero diventare un ostacolo per noi stessi. Ma più spesso siamo gli unici a poterci dare una grande mano. Alla fine, un giocatore il controllo ce l’ha solo su di sé. Non possiamo controllare il vento, il sole, né tanto meno l’avversario quando gioca bene: sono variabili che puoi solo accettare. Per come sono fatto io, temo di più l’avversario».
Anche nella vita vuole controllare tutto il possibile, o alle volte sa affidarsi al caso?
«Voglio controllare solo le cose che mi impediscono di fare il mio lavoro. Evito quelle che non mi mettono nelle condizioni, il giorno dopo, di allenarmi serenamente. Ma se ho voglia di andare allo zoo, per dire, ci vado. Sono un ragazzo normale, fuori dal campo».
Dice?
«Mi piace giocare alla PlayStation. Andare a cena, una volta ogni tanto. Anche se il più delle volte preferisco stare a casa tranquillo, a Montecarlo».
Sinner mangia, lentamente ma ininterrottamente, quel trionfo metafisico di frutta. Con la coda dell’occhio mi pare di cogliere un rigoroso schema ripetersi sempre uguale, a ogni forchettata: ananas, fragola, cinque mirtilli infilati su un rebbio, e poi di nuovo ananas…
Nel tennis, per diventare campioni servono perseveranza, metodo, accanimento, fatica, rigore, forse anche un po’ di maniacalità. Che altro?
«Maniacalità?».
I tennisti hanno la nomea di essere un tantino ossessivi.
«Ah, sì. Be’, serve anche fortuna nel trovare le persone giuste, intorno a te. Ma anche queste, se ci pensi, rientrano tra le cose che puoi controllare».
Lei le ha trovate?
«Credo di sì: le persone giuste al momento giusto, che mi hanno indirizzato sulla strada giusta. Mi hanno aiutato a crescere, a conoscere meglio me stesso, il mio corpo».
Quanto lo cura?
«In questo momento ci sto attento al 100%. Per esempio: domenica ho giocato la finale, il giorno dopo sono volato in Italia e la mattina seguente sono andato subito in palestra. Non ho festeggiato in modo esagerato, non ho bevuto, perché non fa bene al corpo. Siamo andati a mangiare qualcosa e poi sono tornato in hotel».
E quando è andato a letto a cosa ha pensato?
«A niente. La sensazione era molto bella, certo. Ma non ho fatto grandi pensieri: in quel momento non sarei riuscito comunque a realizzare davvero quel che era successo. Ho guardato un po’ di film e mi sono addormentato».
Abbracciato alla coppa?
«No, l’avevo lasciata al mio manager».
E quando ci ha pensato alla vittoria?
«In volo, avevo 20 ore. Ho pensato subito a come potrei migliorare ancora. Mi sono chiesto come mai fossi finito sotto due set a zero, perché non avessi reagito prima».
Un po’ di spazio per la gioia pura non c’è?
«Sono uno abbastanza concentrato. Il che non vuol dire che non mi stia godendo il momento».
Quando nel terzo set della finale ha detto «sono morto», stava bluffando?
«No, ero in difficoltà. Ma sentivo di essere vicino al mio avversario. Stavo chiedendo al mio team di sostenermi».
Ha detto che vorrebbe un fisico alla Baywatch.
«Scherzavo. Non me ne farei niente».
Si piace fisicamente?
«Sì, in un modo normale. Come tutti, dico che vorrei avere qualcosa di diverso, ma in realtà sto lavorando per avere il fisico migliore possibile per giocare a tennis».
Il tennis sembra uno sport sano, esente da scandali. C’è un lato oscuro di questo mondo che non conosciamo?
«Come in tutte le cose, c’è il bello e c’è il brutto. Per esempio tra gli atleti c’è molta competizione, anche fuori dal campo».
Ho la convinzione che i tennisti abbiano un’intelligenza superiore alla media. È vero?
«Sì e no. Cioè… i giocatori davvero forti sono sempre piuttosto intelligenti, è vero».
Nel discorso di ringraziamento, a Melbourne, ha detto che il suo team deve essere ancora paziente con lei.
«Sono uno che si vuole allenare tanto, tanto. Stare dietro ai miei ritmi non è facile».
Nello stesso discorso ha ringraziato i suoi genitori per la libertà che le hanno dato. Persino quella di lasciare casa e trasferirsi a Bordighera per allenarsi seriamente.
«È stata tosta anche per loro. Avevo 13 anni e mezzo, e la verità è che appena sono arrivato lì mi sono messo a piangere. Li ho chiamati dopo due ore, e loro avranno pensato: “Ecco, dobbiamo andare a riprenderlo”. E invece gli ho detto di stare tranquilli, che andava tutto bene. Ho avuto la fortuna di stare in una famiglia fantastica, quella di Luka Cvjetkovic: c’erano due figli e anche un cane. Ero felice, io non l’avevo mai avuto un cane…».
Non sarà andato via di casa così giovane un po’ anche per cercarsela, una libertà che in realtà, forse, non aveva?
«No. Ho solo pensato che se veramente volevo diventare forte, dovevo provare una cosa nuova. Era un passaggio obbligato, che rifarei e che mi ha aiutato a crescere più velocemente. Anche nella vita».
So che, quando era bambino, ad accompagnarla sui campi era suo nonno Joseph. L’ha chiamato dopo la vittoria?
«Ho videochiamato la mia famiglia, c’era anche lui. Ma voglio aspettare quando tornerò a casa, mi piacerebbe parlargli più da vicino. È diverso».
Ha un fratello adottivo, Mark, tre anni più grande di lei. È stato il classico fratello maggiore, che un po’ dà consigli e un po’ rompe?
«A due anni e mezzo ho iniziato a sciare perché vedevo lui sulle piste. Mio fratello è stato il mio primo migliore amico, è sempre stato sincero e diretto. Oggi non ci chiamiamo spesso, ma siamo legati in una maniera incredibile. Mi fa sempre i complimenti, anche quando perdo».
La famiglia come sta vivendo la sua popolarità?
«In modo tranquillo. L’unica cosa è che adesso capita che si ritrovino un sacco di gente fuori di casa».
Da ragazzino avrà dovuto fare delle rinunce, per dedicarsi al tennis. Quale le è pesata, e le pesa, di più?
«Ho tutto, non mi manca niente. Non sono mai stato in discoteca, non mi piace andare a dormire tardi. Preferisco giocare a carte con un amico».
È sempre in giro per il mondo: quanto è difficile mantenere vivi i rapporti, le relazioni?
Accavalla le gambe, allungandosi sulla poltrona, allontanandosi da me. Non è la prima volta. Il linguaggio del suo corpo è di facile interpretazione, quando le domande si fanno appena un po’ più intime.
«I miei migliori amici sono ancora quelli dei tempi della scuola, si contano sulle dita d’una mano. Sono pochi, ma veri, perché mi conoscono da quando ero ragazzino e non gli importa di cosa ho vinto o di quanto sono famoso. Mi parlano di cose normali, mi regalano la serenità. Lo apprezzo, più di tutto il resto. È molto facile tenerli stretti a me».
Come tutti sanno è altoatesino e di madrelingua tedesca. Si è sempre sentito italiano al 100%?
«Sempre, e sono molto orgoglioso di esserlo: a 7 anni facevo i campionati di sci coi ragazzini italiani, a 14 in Liguria i miei compagni erano italiani. Ma poi, noi parliamo il nostro dialetto tedesco, ma anche in Sicilia parlano un dialetto che nelle altre parti d’Italia non capiscono, no?».
Giorgia Meloni ha detto che rappresenta «l’Italia che piace» e l’ha definita un esempio per i giovani. Lo è?
«Boh. È una domanda difficile. Io gioco a tennis, a qualcuno piaccio e a qualcuno no. Per alcuni dovrei essere più sicuro di me, mentre altri apprezzano la mia umiltà».
Ma lei crede che un ragazzo di 12 anni faccia bene ad avere Sinner come idolo?
«Non dovrebbe chiederlo a me. Ma forse sì, perché so di trattare tutte le persone allo stesso modo: se ho davanti a me il numero 1 della classifica o chi pulisce gli spogliatoi, io mi comporto sempre ugualmente, con educazione».
Coi complimenti, inevitabilmente, è arrivata anche la prima polemica, quella sulla sua scelta di tenere la residenza fiscale a Montecarlo.
«Il Principato è un posto molto sicuro, ci sono molti tennisti con i quali mi posso allenare, campi perfetti, belle strutture. Ho sempre pensato che sarebbe potuto essere un buon posto dove vivere».
Da giovanissimo era molto attento ai soldi, si era comprato anche un incordatore per non spendere ogni volta 8 euro per incordare la racchetta. Oggi è ricco.
Mi guarda e annuisce appena.
O possiamo dire molto ricco?
Ride. «Va be’, fa lo stesso».
Che rapporto ha oggi col denaro?
«Prima di comprare qualcosa guardo sempre il prezzo, sempre. Se vado al ristorante e la pasta al ragù costa molto più di quella al pomodoro, prendo quella al pomodoro. Non perché sia tirchio, ma perché rispetto il denaro».
Si è tolto qualche sfizio?
«L’unico regalo che mi son fatto è la macchina».
Sarà una bella macchina.
«È una bella macchina, ma non pensi a una Ferrari, una Lamborghini o una Maserati».
Ha detto no a Sanremo. Non le piace molto quell’aspetto della popolarità, vero? Le ospitate, gli eventi…
«Il 99% delle volte dico di no. Ma il motivo è molto semplice: mi voglio concentrare sul tennis, cerco di evitare le distrazioni».
So che non desidera parlare della sua vita privata. Le chiedo, però, se crede che l’amore possa rientrare tra le distrazioni, rispetto al rigore che riserva al suo lavoro.
«No. Certo non è semplice, giro molto e durante i tornei sono molto concentrato. Ma penso che sia una bellissima cosa quando si trova un amore giusto. Come per tutti. E poi, se ci pensa, i migliori tennisti al mondo hanno tutti moglie e figli».
Trasgredisce mai?
«No. Cioè, piccole cose».
Per esempio?
«Nei tornei abbiamo dei pass sui quali sono caricati dei soldi per i pasti. Qualche volta coi ragazzi del team ci diciamo: “Dai, adesso prendiamo un piatto e passiamo senza pagare”. Ma è per scherzare…».
In quanto a trasgressione, deve ancora allenarsi un po’. Una racchetta in campo l’ha mai spaccata?
«Sì, ma sono passati molti anni. La racchetta è la cosa più importante che abbiamo».
C’è qualcosa che nella vita la fa davvero incazzare e perdere il controllo, anche solo per due secondi?
«Quando perdo a burraco».
Il più grande tra Pietrangeli e Panatta?
«No, no, non iniziamo».
Le gambe si accavallano.
Tra Agassi e Sampras?
«Non li ho mai visti giocare dal vivo».
Almeno tra i leggendari avversari Borg e McEnroe scelga.
«Borg, forse?».
Un campione del passato col quale le sarebbe piaciuto scontrarsi?
«Roger (Federer, ndr) è uno che mi manca».
Quando ha pianto l’ultima volta?
«Quando è mancato l’altro nonno, un anno fa».
E di gioia?
«Mi sa che non è mai successo».
A Melbourne sembravano lacrime quelle sul suo viso.
«Era sudore».
C’è stato un momento in cui sembrava che Matteo Berrettini fosse l’astro nascente del tennis italiano sul quale puntare. Che cos’ha più di lui?
«Lui ha avuto molti infortuni, speriamo che ritorni. Non è giusto dimenticare i suoi successi. Noi italiani siamo un bel gruppo, ci rispettiamo tutti anche se siamo tutti diversi. Io lavoro tantissimo per raggiungere i miei obiettivi e i miei sogni, perché non voglio avere rimpianti».
Se anche dovesse finire domani, lei è già nella Storia. Che effetto le fa?
«È una roba forte, bella, ma io sto facendo anche la mia storia personale, e la sto facendo per me stesso. Se mi guardo indietro so di avere fatto un bel percorso, ma non mi voglio fermare».
Fino a oggi, probabilmente, non ha sbagliato niente, né nella vita né nella carriera. Si sente pronto al primo fallimento che, prima o poi, inevitabilmente arriverà?
«Tutte le partite che si vincono, non si vincono nel giorno in cui si disputano. Si vincono preparandosi per mesi, forse anni, lavorando per quella partita. Vedremo se questo lavoro servirà anche al primo fallimento, vedremo come reagirò. Ma non ho paura di sbagliare, non ci penso. Non vedo che senso abbia pensarci».
So che non è superstizioso: quando diventerà il numero uno della classifica ATP?
«Il futuro non si può prevedere. Sicuramente è un sogno e stiamo lavorando per andarci il più vicino possibile».
Ma se dovesse scommettere un euro, lo punterebbe sul fatto che lo diventerà, numero uno?
«Mhm… non mi sono mai piaciute le scommesse».
Di Federico Rocca.
Fonte: Vanity Fair.