Dieci anni fa la scomparsa di Pietro Mennea, il velocista di Barletta che vinse le Olimpiadi
La "Freccia del Sud" stupì il mondo più volte con gli exploit sportivi, ma era solo la prima parte di una vita breve e straordinaria.
Anche in Mennea c'era una vena di populismo meridionalista, la retorica del ragazzo del Sud che vinceva contro tutto e contro tutti gli veniva sempre fuori. Ma era l'orgoglio del vero outsider, umbratile, incazzoso, consacrato all'etica del lavoro, capace d'allenarsi tanto che perfino il suo allenatore, Carlo Vittori, quando la sera si spalmava sulla pista, doveva dirgli: adesso basta, Pietro, andiamo a casa. E lui non voleva, lasciami qui ancora mezz'ora. Uomo strano, uomo cubista questo barlettano che bruciava benzina di volontà, di sacrificio, faticoso a sorridere, tutt'altra storia dalle pose e le pubblicità dei corridori d'oggi che anche mentre tagliano il traguardo sembrano preoccuparsi del gesto, della posa da servire al pianeta. In compenso gli brillavano gli occhi di incredulità e di gioia, quasi di paura un istante dopo ogni impresa. Alle Universiadi di Città del Messico, il 12 settembre 1979, alle ore 15,15 locali (le 23,15 in Italia), nell'aria rarefatta calda grondante umidità la “Freccia del Sud” fila impazzita, quando il filo di lana salta contro il petto esile e il cronometro si blocca a 19”72 tutti sono stravolti: c'è stato un guasto? S'è inceppato il timer? Invece era il trionfo della volontà di quel piccolo uomo di ferro battuto. Quel primato lì è durato 17 anni e non c'erano i metodi di allenamento di oggi, non c'erano le tutine futuribili di oggi, e nessuno ha mai potuto dire che Menna si “bombasse”.
Ma tu immagina la tromba di Chet Baker. “Why shouldn't you cry”, perché non dovremmo piangere, oggi, ancora oggi, a dieci anni dalla scomparsa? Quelle volate che partivano piano, nervose e umbratili, da cavallino barlettano e poi dopo la curva scattava qualcosa e gli ultimi cinquanta metri facevano paura perché non era più solo correre, non era affatto correre, era la rabbia disperata e trionfante di uno che da ragazzino faceva a gara con il destino segnato, piccolo improbabile sghembo, la faccia storta, la mascella asimmetrica, il carattere angolare dalla timidezza orgogliosa. Per chi chi è cresciuto con quelle volate, per chi ha sognato su quelle furibonde rinunce, sono momenti da portare dentro. Mennea correva per sé ma, in un certo senso, anche per gli ultimi, gli scugnizzi, gli asimmetrici, i cubisti, gli angeli usciti male. Fin da quando, ragazzino, scappava di notte incontro alle sfide di velocità, i suoi piedi con le ali contro i motori delle auto potenti e, siccome si permetteva di vincere, finiva a minacce, a botte. Ed era solo il primo tempo di una corsa infinita come la vita, finita troppo presto, a 61 anni ma piena di tutto. Quattro lauree, la prima sospinto da Aldo Moro, in Scienze Politiche, seguita da quelle in Giurisprudenza, Scienze dell'Educazione Motoria, Lettere. Leggeva tutta la notte, si addormentava, racconta la moglie, col libro addosso e lei poteva sentirlo cadere sul pavimento. La carriera politica, ondivaga, ma convinta, in modo assoluto come tutto quello che faceva. I libri scritti, tanti, gli incarichi universitari, gli impegni istituzionali per il mondo, la testimonianza nelle scuole, la Fondazione insieme alla moglie, per motivi filantropici, suo autentico definitivo motivo di vita. Uno stile che oggi più che perduto pare assurdo, tutti implosi nelle proprie vanità, tutti a fare qualcosa per un ritorno, d'immagine, di carriera.
Mosca 1980, Olimpiadi tetre, boicottate, minacciose: sempre quella cortina di ferro, quei venti di guerra incombente. Mennea è nervoso, tormentato, nei 100 è andato male, nei 200 parte da sfavorito e parte male, è disastroso, ma gli ultimi 50 metri, i soliti 50 metri, fa qualcosa che non si sarebbe più visto fino alle progressioni irreali di Usain Bolt. Pare quasi sospinto da Paolo Rosi, con la sua telecronaca memorabile: “... recupera … recupera … recupera … recupera … recupera … Ha vinto! … Ha vinto! ... Pietro Mennea ha compiuto un'impresa straordinaria...” si commuoveRosi - perché non dovrebbe piangere?- e con lui noi tutti perché quelle erano imprese contro la logica, e facevano sentire noialtri italici, approssimativi e stortignaccoli, capaci di qualcosa davanti al mondo intero. Il tempo questa volta non è eccezionale, 20”19, ma gli avversari, Leonard, Quarry, lo scozzese Wells, lo guardano più stravolti che incazzati. Pietro, il dito alzato, a monito per il mondo, per se stesso, per il destino, non vuol saperne di tornare negli spogliatoi, prigioniero della sicurezza sovietica, il piccolo, ingestibile barlettano si sottrare, gira l'intero perimetro di pista dello Stadio Lenin: o ho vinto, io sono Pietro Menna, eil barlettano, e ho vinto per tutti.
Il suo biennio epico finiva così ma non terminò ancora la carriera della Freccia del Sud, capace di altri risultati importanti, inframmezzati a un paio di ritiri con inevitabili ritorni. Tutto in lui sarà velocità, per sempre. Forse sapeva di non avere molto tempo. La metropolitana di Londra un anno prima della scomparsa gli dedicò una fermata, i treni arrivano, si fermano, caricano vita e corrono via a bordo del suo nome. Come legale, assieme alla moglie avvocato, curò una “class action” in America per difendere alcuni risparmiatori italiani vittime della truffa Lehman Brothers. Non stava mai fermo Mennea e in tutto quello che faceva metteva l'orgoglio di essere italiano, meridionale, barlettano. Sapeva di avere l'universo dentro. E sapeva, probabilmente, di avere segnato un'epoca non solo, non tanto in senso sportivo ma nell'immaginario sociale, è impensabile tornare agli anni Settanta senza di lui, la sua rivalità col russo Borzov, quelle vigilie piene di sole in cui appariva scavato, mangiato dalla tensione e noi con lui, e poi a gloriarsi del trionfo in modo quasi maldestro, e noi con lui. Queste cose non passano, sono scrigni di commozione che portiamo con noi fino alla fine.
Quando tutto era finito, quando i trionfi e i sacrifici erano alle spalle, lui si rimetteva a correre per altre piste, verso altri traguardi. Sempre sorridendo poco ma combinando molto, altroché. Un giorno si trova davanti Muhammad Ali che lo squadra, gigante squassato dal Parkinson, gli dice: “Non capirò mai come ha fatto un piccolo uomo bianco come te a correre più svelto di noi neri”. Mennea regge il gioco: “Che ti credi, io, dentro, sono più nero di te”. Ali resta per un attimo a bocca aperta, una volta tanto senza parole. Poi si fa una gran risata e abbraccia il piccolo barlettano cubista. Perché non dovremmo piangere?