La Finale dei Mondiali in Qatar? Appassionante, ma “la più bella di tutti i tempi” no: questa è solo propaganda
Quasi un secolo di Mondiali, 22 sfide finali: come si decide quale sia “la più bella”? Oggi si esagera tutto, dai campioni viventi a quelli in cielo, ma un conto è la narrazione, sempre più confusa con la comunicazione e sempre più al servizio del potere, un altro la realtà.
La più bella finale di tutti i tempi, la più grande partita di tutti i tempi? Non scherziamo. Bella sì, appassionante, sorprendente sì. Ma mettere la sfida tra Francia e Argentina al di sopra del Pantheon, significa cancellare la cultura di un secolo di calcio. Messi e Mbappé come padreterni, degni di Pelé e Maradona? Anche qui: tenetevi. Ottimi campioni, grandi giocatori, ma insomma di giocate come quelle chi è cresciuto calcisticamente fra gli anni Sessanta e gli Ottanta ne vedeva più in una sola partita che in un torneo intero. Assurdo stilare classifiche di bravura a certi livelli, ma una cosa possiamo dirla: un conto sono i campioni, presi a sé, un altro le squadre da loro condotte e qui le varie nazionali, incluse le finaliste, difficilmente possono competere con certi complessi del passato, proprio a livello di collettivo, di insieme. Facciamo pochi, rari esempi: chi ha visto giocare Rivera “nel suo primo”, per dire all'apice di gioventù? Chi ricorda, sembra ieri ma sono passati 40 anni, i prodigi di Bruno Conti in Spagna? E non c'erano solo loro, c'erano prima i Crujiff, per citarne uno, i Van Basten poi: non tanto superiori o inferiori ai semidei di oggi, ma all'altezza, ecco. Che dovremmo dire di Mariolino Corso che, in una amichevole col Santos di Pelè, arpiona un pallone caduto da 40 metri e, senza fermarlo, senza fargli toccare terra, lo rispedisce, sempre col collo del piede, a un compagno smarcato 40 metri più avanti, gliela fa planare la palla davanti, come radiocomandata? Al che O Rey in persona smette di giocare, raggiunge platealmente il Mariolino, gli batte le mani, lo abbraccia.
Solo che, all'epoca, giocate simili erano la norma o quasi; adesso, che tutto viene esagerato, una finta pare il tocco del Signore. Ma un conto è la narrazione, sempre più confusa con la comunicazione e sempre più al servizio del potere: un altro la realtà A proposito di confusione tra il profano e il divino nel pallone, irrita non poco anche continuo scomodare Maradona, che, dal cielo, ispira, osserva, benedice, giudica e manda: come si fa a scadere a simili livelli di patetismo? Ma per tutta la finale non si è parlato d'altro, parevano, i giocatori in campo, semplici figurine del presepe con lui, el Diego, che le manovrava a piacimento. Hanno spedito i cronisti a Napoli, per vicoli, in un forzoso gemellaggio tra Buenos Aires e Mergellina, e va bene, diciamo che tutto ci può stare in una finale mondiale, anche la sceneggiata, ma solo a livello di parossismo, di estremizzazione: siccome a Napoli hanno avuto Maradona, devono contorcersi in terra al grido “l'Argentina siamo noi”, “amm vinto o 'Mondiale”, “Diego ci prega da lassù”. E magari scioglie pure il sangue a san Gennaro. Capace che domani Conte si sveglia e va a perorare il reddito di cittadinanza nei quartieri spagnoli dicendo che gliel'ha comandato in sogno Diego Armando.
C'è una persistenza di religiosità pagana che nessun grande reset può spegnere, nessuna agenda europea può rimuovere, è resistente, resiliente, spacca il cemento della nuova ideologia come seme che si fa radice e distrugge tutto. Dura, come dura il mito di Maradona, bisogna prenderne atto e forse non è poi una cattiva cosa. Ma arrivare ad ammantare di segni divini una finale, giocata in un emirato, ce ne vuole! Questa finale, senza dubbio avvincente, è una bella cosa per il calcio, lo è meno per lo sport, è pessima per i diritti umani, che finisce per offuscare, secondo grancassa subito partita: sì, ci saranno state settemila vittime sul lavoro, miliardi di corruttele, però avete visto che partita, che organizzazione, il Qatar ha vinto, l'Argentina ha vinto, Maradona ha vinto, Napoli ha vinto. Per la serie, siamo un po' tutti Eva Kaili, tutti Antonio Panzeri, tutti PD, tutti UE. Detto questo, annotato questo, la predica, giornalisticamente parlando, finisce qui. Deve finire qui. Uno che informa può, deve informare, dare conto, illustrare anche le cose più sgradevoli, ma non gli è lecito giudicare chi si è appassionato, chi ha seguito, ha tifato, insomma i milioni che si sono goduti questa “partita oscena”, per dirla col Fantozzi del vestaglione di flanella e rutto libero. Non tocca a noi fare la morale, men che meno ci pertiene sollevare patenti di libertà e di liceità: siamo mica a Ballando con le stelle.
Il campionato in Qatar è stato scandaloso, sì, ma non più di quello in Cina o, nel 1978, nell'Argentina di Videla e del regime militare: però a quell'epoca le polemiche furono pressoché inesistenti, nessuno si sognò di vaneggiare sull'opportunità o meno di far partecipare una Nazionale o, addirittura, di trasmettere le partite in televisione. Non è vietando che si fa il mestiere in modo cosciente, basterebbe evitare di scrivere, di proclamare che tutto va bene, madama la marchesa. Invece, e sta proprio qua il guaio, in troppi hanno immediatamente preso a recitare la giaculatoria di Infantino, il boss della Fifa chiaramente ispirato dalle veline dell'emirato in cui risiede: tutto perfetto, clima idilliaco, incontro di civiltà, massima libertà, totale rispetto (delle minoranze?), incontri memorabili, “la finale più bella di tutti i tempi”. Non è vero ma toccherà sentirla a lungo, questa propaganda postuma. Almeno, lasciate perdere Maradona nell'alto dei cieli. Altri tempi, altri campioni, altri ceffi, altro orgoglio. Finiti gli angeli dalla faccia sporca, oggi sono tutti sporchi con la faccia d'angelo.