"Sandokan", la nuova serie TV della Rai ha ucciso il personaggio e anche Salgari: dai protagonisti snaturati ai contesti assurdi
Veramente incomprensibile come cinquant’anni dopo, si realizzi qualcosa di tecnicamente più vicino a un film casalingo girato con budget ridotto in tempo di austerity che a un grande prodotto di cinematografia
Sembrava chiaro sin dalla lettura di quello che viene presentato come “romanzo ufficiale della serie TV” (Sandokan di A. Sermoneta e G. Bisanti, Salani, 2025), che avrebbero fatto scempio di Emilio Salgari e della sua opera. E così è stato, senza che nessuno si sia indignato, mentre il pubblico di massa, soprattutto femminile, gioiva ignaro per i muscoli sempre ben in vista di Yaman, punta di diamante di un cast per lo più inadeguato. I personaggi sono completamente snaturati, al limite del tollerabile, i contesti assurdi. Manca ogni accenno al fascino esotico e all’imprevisto avventuroso che era insito nella prosa salgariana e finanche nello sceneggiato RAI del 1976. Sceneggiato da cui la regia ha dichiarato di discostarsi, ma di cui si mantengono alcuni capisaldi (vedi l’iconica sigla – peraltro “addomesticata” -, guarda caso…, l’abbigliamento e il tipo di spada di Sandokan, per citare pochi esempi), come fossero salvagenti per naviganti inesperti, per marinai pronti a lasciare la nave di cui, in fondo, evidentemente non si ha piena fiducia.
Veramente incomprensibile come cinquant’anni dopo, si realizzi qualcosa di tecnicamente più vicino a un film casalingo girato con budget ridotto in tempo di austerity che a un grande prodotto di cinematografia. Perché i set orientali realizzati in Calabria, Toscana e in un teatro di posa, attori europei spacciati per malesi o indonesiani, scene d’azione garantite solo da un ledwall o dall’uso massiccio di CGI, rappresentano proprio questo: un minimo sforzo per un minimo risultato. Sciocco fu quindi Sollima, che negli anni ’70 costrinse la sua troupe a girare in Malesia, India, Thailandia, e che si impegnò in un tour dell’Asia per cercare il suo protagonista guidato da aspirazioni di credibilità e verosimiglianza?
Ma le scelte tecniche che determineranno il successo o meno di questa serie, in fondo, interessano il giusto.
La cosa peggiore è aver attinto a piene mani ad una creazione altrui con l’evidente intento di sfruttarne il successo, granitico e secolare, non rinunciando però ad un’attenta manomissione riconducibile all’appiattimento culturale e generalista che permea i nostri tempi. Tanto, chi vuoi che si ricordi del vecchio Salgari, già vituperato in vita e in morte da scopiazzatori ed editori senza scrupoli? Tanto, i diritti d’autore sono da tempo scaduti, per cui la sua opera appartiene adesso a tutti, è un “bene comune”. E come spesso succede, specialmente in Italia, cosa si fa di un bene che è di tutti? Lo si tutela? No, lo si prende, lo si straccia, lo si asservisce, lo si sfrutta a proprio uso, consumo e guadagno.
Invece qualche voce (poche, in verità) si è alzata. Perché non si intende in alcun modo mettere in discussione la creatività della sceneggiatura e la possibilità per gli autori di allontanarsi dalla trama originaria sotto l’egida del “liberamente ispirato”, ma è inaccettabile vedere sovvertire totalmente un caposaldo della letteratura classica, l’essenza dei suoi protagonisti, e il senso stesso dell’opera per come era stata scritta da Salgari. Che, si badi bene, era ed è assolutamente all’avanguardia, senza che necessiti di alcun riammodernamento, o adattamento o “svecchiamento” per mano di sedicenti sceneggiatori assolutamente impreparati e, cosa più triste, privi di qualsiasi amore e passione.
Sì, Sandokan è oggi più che mai un simbolo di cui abbiamo bisogno; ma è tale se rimane fedele agli intenti e allo spirito che vi ha profuso il suo creatore. Ossia quello di un uomo giusto, che ha subito un torto, che lotta contro i soprusi ma non venendo mai meno a valori come la dignità, l’onore, il rispetto, il senso di giustizia. Qui ci hanno propinato un pupazzo a metà tra Jack Sparrow e un manga giapponese, ragazzo di strada, scavezzacollocol ricciulill’ in fronte e il sorriso scanzonato, figlio putativo di una ex-maitresse di Singapore, che fa il pirata non per vendetta, ma per arricchimento personale e dalla dubbia moralità, a cui non dà troppo pensiero rapire una donna o rendersi protagonista di azioni abbiette. Che poi Yaman non abbia un centesimo del carisma di Kabir Bedi o del Sandokan letterario, può ritenersi anche un giudizio personale di chi scrive, ma purtroppo è così.
Poi abbiamo Marianna, suffragetta oltreoceano che coltiva ambizioni da entomologa, animalista, indecisa se darla a James Brooke o alla futura Tigre della Malesia. Yanez missionario sudamericano pentito, che ha perduto tutta la sua flemma e il suo proverbiale acume, che sembra sotto il perenne effetto di droghe. La lista potrebbe continuare, perché non c’è un personaggio corretto dal punto di vista filologico.
Fossimo stati in un altro Paese, forse il coro degli “insorti”, sarebbe stato un po’ più nutrito. Vedi cos’è successo in Gran Bretagna quando hanno annunciato un casting “sbagliato”, per il ruolo iconico di Severus Piton…
Si sarebbero magari aggiunti quelli che, giustamente, si indignano per le ultime trovate in casa Disney (una Sirenetta creola, una Fata Turchina nera o una Biancaneve mulatta), ma sono disposti ad accettare che un principe dell’estremo oriente, sia raffigurato sullo schermo da un attore che è praticamente europeo.
E invece siamo qui, ad assistere al massacro di un’epopea così cara al nostro immaginario, ad un prodotto lanciato in pompa magna e difeso strenuamente, non nel merito beninteso, da chi magari fino a ieri nemmeno sapeva chi fossero Sandokan o Emilio Salgari. Peccato, perché dopo cinquant’anni era giunto il momento che cinema e TV si occupassero nuovamente dello scrittore veronese, però con garbo. Perché se c’è una cosa peggiore di fare le cose male è perdere l’occasione di farle bene. E chi non fa le cose con rispetto, dovrebbe quantomeno provare un po’ di vergogna.
Di Fabio Negro