Roberto Minervini convince al Festival di Busan
Il suo film "I Dannati" sbarca al festival asiatico dopo la consacrazione a Cannes
Il Giornale D’Italia ha intervistato al Festival del Cinema di Busan quattro protagonisti del cinema italiano. GDI ha intervistato in esclusiva Roberto Minervini, che ha presenato al festival asiatico I dannati (The Damned), film gia’ acclamato al Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard. Siamo nel duro inverno del 1862, in piena guerra di secessione, il fillm racconta di una compagnia di volontari viene inviata a perlustrare e presidiare quelle terre selvagge e inesplorate che dovranno diventare il territorio del Montana.
D: Come hai vissuto l’esperienza di raccontare una guerra che non è la nostra?
R: A me è sempre interessato moltissimo andare alle radici di questo strano sviluppo socio economico dell’America moderna. Parlare di questa guerra è stato un percorso letterario, intellettuale, molto profondo e allo stesso tempo umano. Capire anche le varie idiosincrasie dell’America di oggi in rapporto al passato è stato molto importante.
D: Quali sono stati i momenti più difficili cercando di entrare in questo mondo?
R: Probabilmente la cosa più difficile è stata relativa al processo filmico: convincere, o meglio, esortare i personaggi ad immedesimarsi in non solo in un ruolo, ma anche in un contesto politico. Continuare a fare questo confronto tra le loro radici, il loro passato, il loro bagaglio storico culturale e l’America di oggi: esortarli ad avere sempre questa dialettica presente. Un lavoro molto difficile perché si scende sempre in una performance un po’ vacua una volta che si scende in un’uniforme; io invece chiedevo sempre un confronto profondo con il significato di una guerra del genere vista con gli occhi di oggi. Per esortare qualcuno ad immedesimarsi nel ruolo è stato necessario spogliarli di tutto ciò che fosse referenziale alla loro quotidianità: per questo motivo ci siamo piazzati in una valle del Montana al freddo per due mesi. È stato durissimo, una condizione estenuante, come fossimo in guerra, a partire dalle condizioni climatiche durissime.
D: Rapporto con gli attori, come hai lavorato diversamente?
R: Ci sono dei collaboratori che conoscevo già da tanti anni, poi ho fatto casting di strada aprendo le porte alle comunità locali. Per me non è un problema, con gli attori non lavoro in modo preventivo, non li preparo alle riprese, lo faccio durante: mi piace guidarli in quel momento di incertezza, dove loro non sanno dove andare a parare. Il momento dell’incertezza per me è molto propedeutico per raccontare questa storia dove ci si perde, non si sa bene dove si va. Lavoro con loro sempre durante le riprese, mai prima.
D: Da dove hai preso ispirazione, hai riferimenti?
R: Per me era importante non fare il film di guerra che lasciasse spazio alla spettacolarizzazione della guerra. Mi sono informato molto sul genere per raffrontarmi con i suoi diversi concetti: quello di eroismo, di martirio, sacrificio e lo spettacolo. La pirotecnia della guerra nel mio film non esiste, più che ispirazione sono entrato in dialogo con il genere del cinema di guerra cercando di fare qualcosa di molto diverso, quasi antieroico. Le ispirazioni vere vengono dalla letteratura, da racconti tra cui spunta Buzzati, dove si racconta l’attesa, il tedio e la sofferenza della guerra. So di essere in dialogo con molti autori americani come Kelly Richard; a livello filmico Resnais che ha fatto “Hiroshima mon amour”, un film pacifista, forse l’unico a cui mi sono davvero ispirato questa volta.
D: Come ha costruito la parte umana dei personaggi?
R: Il modo di girare è stato preciso sin dall’inizio, il focus era spostata sui singoli personaggi, sempre al centro di tutto ciò che accade. Costantemente vicini alla macchina da presa e al centro dell’inquadratura, che li ha portati ad aprirsi, ad attingere dal di dentro per poi parlare di sé stessi durante il film e confrontarsi con gli altri. Questo è un processo che richiede molto tempo, non si tratta di un semplice atto di regia o indicazione registica: è un processo, quello di volersi aprire e confrontarsi con gli altri. Per questo le riprese sono durate più di due mesi.
D: In che termini una persona che va a vedere questo film, riceve dei segnali in senso pacifista?
R: In un momento dove siamo martoriati di guerre, penso sia molto importante per me che un film di guerra non sia “godibile”. Non si può uscire dal cinema entusiasmati ed eccitati e persino divertiti, dopo un film di guerra non si può uscire pensando che si è passato un buon momento. Nel mio caso questo film presenta la noia, il nulla, l’attesa come qualcosa di desiderabile, perché fino a che non c’è uno scontro non si rischia di incontrare la morte, se non accade nulla si sopravvive. Si tratta di un film umanista perché incentrato sulla sopravvivenza, sulla resilienza umana che ci porta a voler vivere e sopravvivere, il focus è tutto lì, non sull’eroismo del morire e tantomeno dell’uccidere.
D: Perché si accetta di partecipare a missioni impossibili?
R: Parlando del caso Americano, la guerra di secessione del 16° secolo è il momento in cui si comincia a parlare di “causa giusta”, “causa divina” per una guerra e quindi di giusto sacrificio. Si parla anche di facili guadagni, si mischia la guerra di secessione con la corsa all’oro, con la conquista di territori, pertinente in un’America già al tempo capitalista. Qui ci son varie ragioni per cui si è pensato che forse, come dice uno dei soldati: “Andare a guadagnare in guerra potrebbe essere una buona opportunità per costruirsi un futuro”.
D: In che genere cinematografico ti senti più a tuo agio in questo momento?
R: Mi piace molto la commistione tra le matrici della fiction e dei documentari. La fusione tra due matrici: una che parte da una scrittura e l’altra che parte dall’osservazione e dall’improvvisazione. Entrambe si arricchiscono molto a vicenda, mi è piaciuto molto anche creare situazioni di finzione artificiali per poi invece andarle a raccontare con l’esperienza diretta. Creare una battaglia e passare ore al freddo nascosti per evitare di finire sotto i proiettili nemici. È molto bello come la finzione possa amplificare un feeling di esperienza e come l’osservazione possa portare ad una performance. I due genere madre - finzione e documentario - possono essere combinati e questa una cosa che ho sempre fatto e che mi piace continuare a fare.
D: Il tuo futuro dopo questo successo?
R: Sto pensando di lavorare ad un film italiano, sento che è arrivato il momento di scavare a ritroso e tornare alle mie origini. Probabile che sarà un film intimo, mi piace tornare in quell’intimità e l’Italia è il palcoscenico giusto dove farlo, poiché è il luogo dove tutto per me è iniziato.