Vacanze di Natale fa 40 anni: resta il papà di tutti i cinepanettoni, ma con qualcosa di speciale
Non un capolavoro del post neorealismo, ma neppure la bassa cucina che per decenni la intellighenzia cretina di sinistra pretendeva (salvo "riabilitarlo" fuori tempo massimo). Un film di cassetta, ingenuo e astuto, che viveva, e vive, più sui caratteristi che sui divi.
Va bene, non chiamatelo cinepattone se non vi va, se non vi fa piacere, ma Vacanze di Natale cinepanettone lo fu e tale resta come un prototipo, il padre di tutti i cinepanettoni. Poi, d’accordo, in 40 anni un film può anche guadagnarsi i galloni del cult, può ritagliarsi un posto nella storia, ma per favore lasciamo stare le pretese di post neorealismo: era un film nato per far cassetta, i produttori De Laurentiis intendevano sfruttare il successo, inaspettato, clamoroso, di Sapore di Mare e ripresero più o meno tutta la banda, con ulteriori nuove entrate. E Vacanze di Natale andò oltre. Per cui fanno bene i reduci, come Jerry Calà, a difenderne la memoria e perfino l’epica; va aggiunto, però, che questa pellicola maliziosa e ingenua, dispendiosa e artigianale ancora, si trascina dietro, come le catene di Jackob Marley, il peccato mortale di innumerevoli epigoni squallidi quando non miserabili.
È un film senza una trama, come spesso è la vita; è un film che campa sui tormentoni, sulle battute, il Riccardo Garrone di “anche questo Natale se lo semo levato da le palle”, Christian de Sica che si ribella alla qualifica di “figlio frocio” della madre, la strepitosa Rossella Como, e corregge: “Casomai bisex; moderno, ecco: moderno”, il “peso a valle e lo sci a monte avanzato” (o era il contrario) di Zampolin, che finisce nel letto di De Sica/Felicino a Capodanno, le cameriere sguattere Conception e Asumption, e non si finisce mai. Toninho Cerezo che a san Silvestro dorme “perché è un professionista”, Mario Brega e i regali di Natale, “occhiali co lo specchio” al figlio, le cassette di Claudio Villa alla suocera, il maglione extra-extra-extra large per la moglie, che costa di più, “Ha capito quant’ho speso???”.
Così. Non è poco, anzi è una infinità, ma non c’è altro. Una sequela di gag, e tutti dentro, tutti scatenati in una anarchia armoniosa, divi, comprimari, la Sandrelli, la Lisi, perfino Moana Pozzi in un riquadro, l’enorme Pasin che non ricordo chi lo faceva, quell’altro, il mingherlino effemminato e dispettoso, finito a fare il maggiordomo di Bruno Vespa a “Porta a Porta”. Però, su tutti: ma davvero, davvero su tutti: come un satellite orbitante intorno alle celebrità spicca Guido Nicheli. Il Dogui. Perché lui anagrammava tutti i nomi a partire dal suo. Il cumenda, quello di “Milano Cortina 2 ore 54 minuti 27 secondi Alboreto is nothing”, uscita naturalmente improvvisata che fece piegare in due tutti, il cast, la troupe, i fratelli Vanzina in regia, tutti. Il Dogui per lo più improvvisava, era un non-attore. Solo in quel film, si sarà inventato duemila trovate. A volte dovevano allungare il girato perché lui non la finiva, gliene venivano sempre di nuove, però, attenzione, non le battute comiche, alla Walter Chiari, lui intesseva situazioni e le coronava con una folgorazione. Come un calciatore che passa a se stesso e va in gol. Non è che fosse così spontaneo, perché non era il suo mestiere, recitare; però, del resto, neanche i big erano così immediati in quel film che non era commedia però era satira, non aveva pretese sociologiche ma sapeva leggere il suo tempo, non aveva ambizioni intellettuali ma, a lungo andare, è stato inseguito dall’intellighenzia cretina, che prima snobba, poi, quando capisce che ha preso una cantonata, perché nessuno le va dietro, si rifà il trucco e gioca alla riscoperta, alla riconversione del popolare. Coglioni! Ah, ma il Dogui se ne fregava di quella roba lì. Li sfotteva come sfotteva la riccanza, semplicemente essendo più di loro. Parodia che si buttava via. E ci ha segnati tutti. E ci ha fregati tutti. La comparsa che non si può scordare. Quella che spiccava sulle star. Quella che sapeva di anni ‘80 ma poi non passa più. Quello che ti resta dentro. Vacanze di Natale non sarebbe stato lo stesso senza il Dogui, e non se ne parlerebbe ancora dopo 40 anni. C’è poco da fare, capito, animali!...
… In una sera senza luce, una delle tante, una di troppo, una come quelle che mi sono abituato a non vivere, come mille altre che non vivrò, rientro a casa stravolto dopo la visita di rito a mia madre. Il cane è agitato, come sempre, io invece mi accascio sul letto. Accendo il portatile, comincio a disperdermi per Youtube. Penso che voglio non pensare, voglio solo portarmi via in quel modo melanconico che è parte di me e mi rifugio nei filmati di Guido Nicheli detto il Dogui – lui anagrammava tutto, non ve l’ho detto?, il cane diventava “neca” e così via. Il Dogui, che per tutta la vita ha messo in scena se stesso, quel personaggio tracotante e irresistibile, milanese cafone ma tutt'altro che snob, un'esplosione di vita e umanità. Non sapeva recitare, non recitava: diventava, improvvisava, da spirito eternamente libero. “Io nasco dentista, se fossi stato costante a quest'ora sarei ricco, invece appena avevo l'equivalente di tremila dollari chiudevo il laboratorio e facevo un calcolo: cento dollari al giorno, sto ai Caraibi un mese”. Non una vita in vacanza ma la vacanza di una vita, tutti i luoghi esotici erano suoi, amante del mare, della natura, dei cani e dei soldi che volavano via. Sempre così, anche sul set dove “i Brothers”, i fratelli Vanzina, lo avevano non scoperto ma solo sguinzagliato. Il caso, delle volte: se lo trovano davanti ai Caraibi, in un ristorante in compagnia, mi pare, di Renato Pozzetto, forse c’era anche Cochi: lo fiutano, lo intuiscono, e tutto comincia. Lui sempre lui, curioso e beffardo, mai schiavo di nessuno, amante veramente solo del suo cane, pronto a raccogliere ogni occasione ma senza menarla, senza dannarsi se poi la perdeva. Tanto, ce ne sarebbe stata un’altra, così come c’era sempre una valigia da riempire per fuggire incontro al sole.
Vai e sii chi sei, chi devi essere. Il Dogui non conosceva Nietzsche, probabilmente, ma lo rispettava con tutto se stesso. Bazzicare i posti da sogno era il suo bagaglio, la sua esperienza sul set: lui “aveva saputo”, nessuno poteva insegnargli niente sotto nessun cielo, di riccastri veri e motoscafi, di denari che andavano e venivano e di come usarli, non farsene usare. “Sì, costerà un po' di più, ma vuoi mettere la libidine?”. Lui, che nella prima o seconda vita faceva il rappresentante di liquori, fra un Derby e l’altro, era un salutista, un ictus fulminante l'ha folgorato a 73 anni: e ne dimostrava cinquanta. Si portava dentro l'insofferenza e lo sberleffo, un frasario incredibile, solo suo, le strisce dei “casciavit”, i cacciavite, per dire i milanisti, guai a scambiarlo per nerazzurro: “Negativo! Ma ti pare una faccia da Inter?”.
Il Dogui – sia benedetto Sandro Patè che ce lo restituisce in un bel libro - non era un attore e non era un viveur, era un mondo, un modo di vivere e pensare. Io la mia libertà non la cedo a nessuno perché la libertà è la mia etica e se la tradisco, tradisco me stesso. Uccido me stesso. La prossima clip è traditrice, è carogna. La tomba del Dogui, al cimitero di Bereguardo vicino Pavia. A terra, una tomba semplice, piena di cimeli suoi. Ci sono fiori incapsulati, non li avevo mai visti così, una tazza con la sua maschera, una vegetazione un po' asfittica, che non rende giustizia alla sua vitalità. Sulla lapide il suo tormentone, “See you later”. Un'ape s'aggira, tenta di succhiare il fiore ma non ci arriva, è nella capsula e lei si impegna, disperata, puoi sentirla ricamare il silenzio. Non ha niente delle sue fughe in paradiso quella tomba, è la negazione della meticolosa libertà del Dogui. Ci piove un sole gelido, non tropicale. Non c'è il mare, ma ghiaia, sassi.
Non c'è nessuno.
Io volevo solo rispolverare un po' gli anni dell'adolescenza, quando c'era tutto il tempo di illudersi. Quando non immaginavi ancora che un cinepattone 40 anni dopo ti sarebbe pesato addosso così.