“Volevo magia”, il ritorno in studio (e dal vivo) dei Verdena

A un passo dal "nulla" con il rock esistenzialista del gruppo bergamasco

Nell’incipit della primavera del 2020, Alberto Ferrari trasmetteva una performance dalla sua abitazione, durante la quale eseguiva undici canzoni in circa mezz'ora. E’ una delle parentesi musicali più intense di quel tempo simile a una pellicola tra horror e fantascienza. Sono passati cinque anni dalla più recente opera dei Verdena, i due volumi di “Endkadenz”, Ferrari lascia per la prima volta intravedere la possibilità di una carriera solista. Non era così: proprio in quei giorni dichiarerà infatti che un nuovo album dei Verdena è sostanzialmente pronto, ma c’è ulteriore materiale denso di rabbia composto di recente che non potrà restar fuori. La lentezza e la cerebralità della band, e il “delirio” di perfezionismo, unito al fatto di possedere uno studio di proprietà dove registrare, fanno sì che di anni ne trascorrano altri due e mezzo prima di giungere a ultimare “Volevo magia”, con nel mezzo giusto la colonna sonora di “America Latina”, frutto del restyling di tracce strumentali ripescate dai cassetti del “pollaio”. In tutto questo tempo si verifica una situazione inedita: il trio si dedica anche ad altro. Luca Ferrari suona la batteria nell’apprezzato esordio dei Dunk, il fratello Alberto appare sereno, deresponsabilizzato e sorridente nel supergruppo I Hate My Village, Roberta Sammarelli è divenuta madre. Il lockdown provoca un cambio di direzione nel sound delle incisioni, la band è in studio e dal vivo da circa un quarto di secolo, con un suono che già indica “Wow”, un ritorno verso l’epoca nella quale, al centro delle creazione e delle esecuzioni musicali, c’erano soprattutto le chitarre, quelle belle chitarre di Alberto. Ma a conti fatti, dopo ripetuti ascolti, “Volevo magia” sembra essere per i Verdena il disco delle grandi occasioni sprecate. E’ un lavoro interessante che punta su un suono rodato, deludendo qualsiasi aspettativa intorno a lampi creativi inattesi, che compaiono nella spigolosa e multiforme “Chaise Longue”, l’unica parentesi dallo svolgimento imprevedibile, non a caso diffusa con un paio di settimane di anticipo rispetto al resto del materiale, perfetta per generare una curiosità che si rivelerà in parte eccessiva. “Volevo magia” è un disco di chitarre tempestose, che sferza l’ascoltatore, focalizzato in maniera forte sull’idea di riff, che lascia ottime sensazioni dal punto di vista musicale e conferma la solita grande attenzione del trio per gli aspetti melodici. I primi tre quarti sono di ottimo livello, specie negli accenti hard blues di “Paul e Linda”, scritta ed eseguita con Stones ed Elvis nel cuore, nel fuzz sparato a tutto spiano sul campo di battaglia di “Pascolare”, e soprattutto nelle due sensazionali tracce dal contenuto altamente infiammabile, “Crystal Ball” e la crudele title track, sfuriata hardcore-punk che rappresenta quanto di più duro mai registrato dai Verdena, una sorta di nuova “Isacco nucleare”, ma suonata con ancor maggiore veemenza. Si tratta di tellurica energia liberatoria, accumulata per settimane e compressa a forza in tre minuti esplosivi di grandissima tensione. La simultanea compresenza di frangenti tanto fragorosi, concentrati nella prima parte del disco, fissa il mood e caratterizza in maniera forte l’intero lavoro, che pur è completato da brani suonati con meno foga, più morbidi e intimisti, fra i quali si distinguono “Certi magazine” e “Sui ghiacciai”. La sensazione è che i tre si siano divertiti molto a incidere queste canzoni, ma “Volevo magia” non nasconde i segreti, non è in grado di svelare chissà quale arcano, tendendo nell’ultima parte a "normalizzarsi", ripetendo soluzioni già sentite. Ancora una volta, come alle origini, il pregio-difetto della registrazione si trova nei testi, cerebrali, criptati sotto strati di suoni, monotematicamente incentrati su rapporti di coppia complicati. Ferrari oggi non piange e non ride, sorride in modo amaro sempre a un passo da una sorta di neo-esistenzialismo letterario rivelando il processo che genera le parole contenute nelle sue canzoni, persino ricorrendo all'autoironia nel finale di “Cielo super acceso”, quando lascia allo stato primordiale l’inglese maccheronico dal quale di solito parte tutto. I Verdena, disorganici, asimmetrici e indisponibili a qualsiasi compromesso, mantengono così la loro originalità nelle loro tracce d’incisione, per la prima volta creano un lavoro, che pur funzionando discretamente, è praticamente quasi sganciato dai loro album precedenti. A oltre nove mesi di distanza dalla sua diffusione dalla sala di registrazione, probabilmente, l’album propizierà il ritorno dal vivo degli ormai veterani Verdena verso un pubblico maturo e giovane allo stesso tempo.