Maneskin a Sanremo, quando politica e business si fondono

La kermesse festivaliera ormai ha poco di musicale, premono altre logiche, improntate a ridefinizione sociale nel segno del dirigismo moralistico unionista

La Rai non vuol vuole sentir parlare di lobby gay, ma che il cosiddetto servizio pubblico sia un reame fluido come piace al PD, questo da viale Mazzini a Saxa Rubra non può negarlo nessuno. Non può essere casuale lo svolazzar di Malgiogli, di Drusille, di programmi en travesti, di transgender, di drag queen affidate, ma ancora non pervenute, all'Alba Parietti per non dire delle militanze nei corridoi e nelle conduzioni. Tutto bene, ma se il mondo, anche in Rai, diventa ad una dimensione è una scelta precisa, puro dirigismo pedagogico: non chiamarla lobby se vuoi, usa un altro termine, più fluido, ma è solo un problema di definizioni. Di sicuro il servizio pubblico non è più rappresentativo del paese se mai lo è stato, ma di una precisa fazione e in questo senso si registra la caratterizzazione esasperata del festival di Sanremo, dove il conduttore promosso da un manager renziano, già piddino fa il suo lavoro, recluta ombre di cantanti per lo più provenienti dai giri Arci, Festa dell'Unità, concertone sindacale del Primo maggio. Cioè un circuito differenziato ma alla fine unico. I molluschi woke del finto indie, i trappettari sempre più androgini, le Madame e le Ariete, stessa età, stessa fluidità ma oggi avvantaggiata la seconda perché libera da ambiguità vaccinali: non è un mistero che al PD vorrebbero una di queste sul palco, credono in tal modo patetico di tirare la volata alla ricca fluida Elly Schlein. Nel segno della doppia omogeneità: è tutta gente che rifiuta una precisa connotazione sessuale ma rivendica una connotazione politica: odiano Meloni, la dipingono come una stragista, temono, povere prefiche depresse, che venga a deportarli in quanto, se non ve ne siete accorti, noi amiamo senza confini. Che è oggi il requisito primario per avere riscontro.

Provincialismi d'importazione, manovrati da una politica avulsa che ormai dipende da Sanremo, dai suoi affari commerciali, promozionali; Frank Zappa l'aveva capito per primo, “la politica è il ramo intrattenimento dell'industria” e mai come in questo passaggio ci siamo con l'imbarco, largamente annunciato, dei Maneskin, questi quattro emaciati apostoli del genderismo vanesio come piace alla sinistra moralista. Sanremo vive di certezze e una di queste è la fluidità sempre più regina, l'altra è la fabbrica di marchette: questa farsa di gruppuscolo, che con enormi quantità di denaro è stato imposto a dimensione internazionale, ha appena licenziato un disco che la stampa specializzata angloamericana ha definito imbarazzante se non vergognoso (un minimo di dignità professionale, altrove, rimane) laddove quella italiana, palesemente assoldata per dirne meraviglie, non sposta niente. Dunque c'è disperato bisogno del passaggio nel festival dei fiori di plastica. Previo “matrimonio” con cui i 4 si son giurati a suon di slinguazzate (tre maschi fluidi contro una femminuccia non binaria) eterna fedeltà: tempo un anno saranno esplosi, schegge scisse, ma conta il qui ed ora, atemporale, astorico, avulso da retaggi di sorta: qui, adesso, per fare soldi per fare soldi per fare soldi.

Citofonare Ferragnez, coppia androgina non di nome ma di fatto i cui messaggi visivi, se così si possono chiamare, le cui sollecitazioni sono comunque puntate in quest'unica direzione (arrivano a smaltare il figlio di tre anni): lei co-conduttrice nelle serate di apertura e finale, lui se possibile ancor più invadente con uno spazio personale e la trasposizione di un suo podcast: gridare alla censura, all'antisistema, all'odio e alla rappresaglia contro gli sbirri paga, fa entrare nel sistema con tutti i reggipalle.

È il trionfo del mercantilismo che si autogiustifica: non questione di follower, entità misteriose, per lo più fittizie, che difficilmente si trasformano in telespettatori, ciò che la Rai sa benissimo; diversamente, dovremmo concludere che i trenta milioni di lei e i circa venticinque di lui porteranno a un 100% bulgaro di ascolti sull'Ariston, inclusi i senzatetto. La faccenda, viceversa, va collocata ancora una volta nell'intreccio perverso tra politica, industria, commercio e comunicazione: al PD sognano, non è un mistero, una Ferragni ingaggiata, magari pure ministro; sembra pazzesco, ma è la realtà e una realtà in fieri che passa per le partecipazioni ad una scadente kermesse di personaggini, di apprendisti artisti indefinibili. In Rai, l'attuale premier Meloni ha dato incarico all'AD uscente, Fuortes, di riequilibrare un po' la faccenda, tanto per fingere, almeno di facciata, una televisione pubblica che appartenga davvero un po' a tutti; la verità è che Meloni non ha la forza né la voglia di cambiare neanche una pianta in quel fortilizio alieno (ed è questa eccessiva cautela che presto la perderà): non può permettersi di renderselo ancor più ostile, non ha nessuna voglia di mettersi contro gli sponsor dello status quo che vanno da Mattarella all'Unione Europea la quale sulle transizioni ha investito tutta se stessa, al netto delle mazzettone qatarine e di mezz'altro mondo: transizione green con Greta, gastronomica coi vermi, sessuale coi fluidi.

Lo sbarco degli improponibili Maneskin è preceduto, si accennava, da una strampalata “festa nuziale” ideata e diretta da Alessandro Michele, ex direttore creativo di Gucci (che veste i quattro finti musicisti), i cui standard fluidi erano troppo perfino per una moda come la attuale (ossia facevano perdere quote di mercato: c'è un limite anche all'esagerazione insulsa). Agli sponsali “poligami”, come in una cerimonia dell'Islam africano, spiccava la immancabile pletora di carrieristi e presenzialisti gender tra cui tale Cahty Latorre, in perenne rampa di lancio piddina, oggi convertita al seguito di Schlein di cui condivide l'attitudine non binaria. Che per la sinistra di potere è l'ultima spes, spremute o fallite o abortite le altre battaglie di retroguardia dal migrantismo all'abortismo, dal dirigismo alimentare a quello vaccinale in pieno rigurgito da overdose. Sanremo è il luna park per eccellenza virato in arcobaleno: guardare lo guarderanno, gradire è un altro paio di maniche, certo che con questa baracconata la politica d'intrattenimento sembra aver sancito un livello non più reversibile.