La prigione del corpo e i dubbi della maternità nel Concorso di Venezia 79

La fine della Mostra del Cinema ci permette di individuare alcuni fili conduttori tra i film del Concorso Ufficiale

Che sia una scelta dei selezionatori o una semplice casualità, ogni Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia è attraversata da svariati  fili conduttori che uniscono i film del Concorso. Quest’anno non fa differenza: esaurito il lungo elenco di titoli in corsa per il Leone d’Oro, ci sono almeno due temi ricorrenti - talvolta interconnessi - che emergono di prepotenza.

Il primo, e più palese, è quello della maternità. Intendiamoci, siamo lontanissimi da qualunque discorso vetusto e retorico sul ruolo tradizionale della madre: le cineaste e i cineasti di Venezia 79 scelgono infatti di problematizzarne la figura in un mondo che cambia, e che apre finalmente le porte alle sfumature del dubbio. Nello specifico, da queste madri (o potenziali tali) emerge un contrasto fra individualità e responsabilità che pare inevitabile nel rapporto con i figli. Lo sa bene la Cate Blanchett di Tár, direttrice d’orchestra di fama internazionale che abusa del suo potere come i colleghi uomini, e vede allontanarsi sia la compagna sia la figlia: un esempio di ritratto femminile complesso, mai compiacente, e che non necessita di far leva sui traumi del passato per giustificare il carattere. Sul versante opposto, la Patricia Clarkson di Monica è incapace di accettare la vera identità sessuale di sua figlia, dimostrando che può davvero esserci un limite all’amore di una madre, contrariamente a quanto si pensi. Spesso madri e figlie si specchiano per scoprire affinità e differenze, come nel fascinoso The Eternal Daughter di Joanna Hogg, film personalissimo che rielabora le esperienze interiori dell’autrice: non è certo un caso che, in questo dialogo tra generazioni, madre e figlia siano interpretate entrambe da Tilda Swinton.

Le opere che meditano più esplicitamente sui conflitti della maternità sono però Les Enfants des autres e Saint Omer, guarda caso entrambi francesi: il cinema d’oltralpe conferma anche qui il suo sfavillante stato di grazia. Il film di Rebecca Zlotowski è una riflessione lucida e onesta sul desiderio materno, che non giudica la protagonista - al contrario di quanto fanno alcuni spettatori - sulla supposta tardività del desiderio stesso. Non siamo dalle parti di “donna = madre”, per fortuna: la regista, coadiuvata da una straordinaria Virginie Efira, dice esplicitamente che una donna non ha bisogno di figli per sentirsi realizzata, ma la volontà di averne è umana, come quella di non averne. Al contempo, Les Enfants des autres espande già dal titolo l’idea di maternità ben oltre la famiglia tradizionale, poiché la protagonista è abituata a occuparsi dei “figli degli altri”, in primo luogo come insegnante: è quello il ruolo che le permette di lasciare un segno, e non le serve partorire un figlio per farlo. Dal canto suo, il film di Alice Diop prende spunto da un fatto di cronaca per rileggere la maternità come dubbio, talvolta persino come terrore. La storia di una madre che ha abbandonato la figlioletta all’alta marea si dipana attraverso le deposizioni del processo, cui assiste Kayije Kagame nel ruolo di una scrittrice che deve scrivere un articolo sulla vicenda. Essendo lei stessa incinta, la donna è profondamente colpita dalle parole dell’imputata, volto indecifrabile che sconvolge e indigna gli accusatori bianchi. Da un lato abbiamo il timore della protagonista di diventare come sua madre (la linea ereditaria tra genitori e figli è un altro tema ricorrente del concorso), dall’altro l’incapacità occidentale di vedere i non-bianchi oltre gli stereotipi, e di comprendere culture o mentalità diverse dalla propria. Diop, acclamata documentarista, traduce così la sua poetica in un film di finzione, con l’acutezza di una regista abituata a mettere in discussione la realtà sociale della Francia contemporanea.

Solo in parte connesso a questo tema ricorrente, la difficoltà nel rapportarsi al proprio corpo è il secondo filo conduttore che unisce alcune opere del Concorso. Fin dall’apertura con White Noise, infatti, abbiamo visto come il corpo stesso possa diventare un nemico: il protagonista del film di Noah Baumbach, esposto a una nube tossica, non può controllare ciò che accade dentro di lui, e rischia di vedere concretizzarsi la sua paura della morte. Anche la Taylor Russell di Bones and All deve affrontare qualcosa che non è in grado di controllare, ma qui si tratta di un impulso antropofago, un’esigenza impostale sempre dal corpo. I casi più lampanti, però, riguardano le limitazioni a cui certi personaggi devono sottostare nella loro vita quotidiana. The Whale è esemplare, in tal senso: il Charlie del magnifico Brendan Fraser è ingabbiato in un corpo che non gli permette di vivere liberamente, o almeno non nel senso più completo e tradizionale del termine. Ogni movimento è una lotta contro le proprie membra, uno sforzo titanico contro sé stesso. Ma il corpo può essere una prigione anche in termini di identità sessuale, e allora torniamo a Monica di Andrea Pallaoro. La protagonista Trace Lisette è una donna trans, quindi nata in un corpo al quale non ha mai sentito di appartenere, e la transizione le permette di vivere in accordo al suo vero sentire: insomma, talvolta dalla prigione del corpo di può persino evadere. Per ragioni diverse, anche la sopracitata eroina di Les Enfants des autres si sente tradita dalla sua normale biologia fisica, che presto non le consentirà più di avere figli (come le dice Frederick Wiseman nel cameo più surreale di questa Mostra). Si combatte quindi con l’invecchiamento, oppure con un handicap, come la cecità di Ali nell’iraniano Oltre il muro, o la sordità di Park nel giapponese Love Life. In tutti i casi, una parziale via d’uscita giunge sempre dalla solidarietà umana, dalla ricerca di un contatto con il prossimo. Con modalità e tempi diversi, ognuno di loro allunga la mano verso “l’altro da sé”, sperando che il proprio bisogno venga riconosciuto, e quindi legittimato. Il confine tra salvezza e rovina sta tutto lì.