Nasce il primo il primo vigneto urbano di Firenze grazie a Maria Fittipaldi Menarini e le sue figlie
Un’impresa tutta al femminile. E’ la prima vigna urbana di Firenze dove sono state messe a dimora 700 nuove viti creando Vigna Michelangelo
Sono soprannominate le “donne del vino” perché tutte donne della stessa famiglia, la dinastia Menarini fondatrice della omonima casa farmaceutica fiorentina, e perché grandi appassionate del mondo del vino. Vuoi un po’ per passione del buon bere, vuoi perché trascorrono parte dell’anno in uno dei luoghi più iconici al mondo per la coltivazione delle vigne: Bolgheri. Dove naturalmente hanno una tenuta che produce il famoso vino rosso Bolgheri, associata al Consorzio Doc Bolgheri e Doc Bolgheri Sassicaia. Stiamo parlando di Maria Fittipaldi Menarini e le sue 4 figlie Carlotta, Giulia, Serena e Valentina che si dividono tra la grande dimora di famiglia di Firenze e Bolgheri. Donne Fittipaldi nasce esattamente 20 anni fa, nel 2004, quando Maria Menarini decide di impiantare vigne e olivi nella terra di Bolgheri. Quasi cinquanta ettari con una produzione che si attesta sulle 70 mila bottiglie annue curate dall’enologo Emiliano Falsini. Una scelta lungimirante. Oggi Bolgheri è considerata la Bordeaux italiana. Ma la scommessa della famiglia Menarini non si ferma a Bolgheri, arriva fino al centro storico di Firenze, e più precisamente a pochi metri dal piazzale Michelangelo, meta turistica per eccellenza che offre uno dei panorami di Firenze più suggestivi e dove la famiglia Fittipaldi Menarini possiede una villa con due ettari nella quale è stata impiantata la prima vigna urbana di Firenze. Un progetto che rientra nell’Urban Vineyards Association, una associazione internazionale nata nel 2019, su iniziativa del produttore torinese Luca Balbiano, che riunisce 11 associati in Italia e all’estero. La mission è quella di promuovere progetti di recupero storico e azioni di valorizzazione culturale, paesaggistica e turistica delle vigne urbane aderenti. La prima vigna urbana moderna di Firenze vedrà mettere a dimora 700 nuove piante. “Questa vigna rappresenta anche la mia infanzia – ricorda Maria – quando i primi di settembre, di ritorno dalla villeggiatura, amavo cogliere gli acini e anche alcuni grappoli per la tavola”. La passione e l’esperienza acquisita in questi anni l’hanno convinta a far rivivere la vecchia vigna di casa. “In qualche modo – prosegue Maria – voglio dare un segno e un senso di continuità a questa casa, particolarmente amata da mio padre Mario.” L’aspetto tecnico è seguito da alcuni tra i migliori professionisti della Toscana come l’agronomo Stefano Bartolomei e l’enologo Emiliano Falsini. “Il vigneto che andiamo a realizzare – sostiene Stefano Bartolomei - è un vigneto giardino e dovrà essere perfettamente integrato con l’ambiente circostante per mantenere inalterate le caratteristiche del paesaggio”. “Con la Vigna Michelangelo – continua Emiliano Falsini – prenderà forma il primo progetto di Vigneto Urbano a Firenze. Un progetto ambizioso, affascinate e suggestivo in uno degli scenari più belli ed evocativi della città. Un impegno importante, volto al recupero dell’antica viticoltura cittadina da sempre presente nella città culla del Rinascimento e dove il vino ha rappresentato, nel corso della storia, un importante segno distintivo.” La Vigna Michelangelo è costituita da 700 viti così suddivise: 300 viti sono di Sangiovese, con i cloni scelti nella selezione CCL2000. 150 viti sono di Canaiolo, anch’esso vitigno molto diffuso in tutti gli areali chiantigiani, utilizzato per conferire eleganza e leggerezza ai Sangiovese più austeri, ma anche per il vino d’annata con la pratica del “governo alla toscana”. 100 viti sono di Foglia Tonda, vitigno coltivato con successo in Val d’Orcia e nella Valle dell’Arno, che unito al Sangiovese dà maggiore robustezza al vino e maggiore longevità. Altre 100 viti sono di Pugnitello, varietà che sta offrendo interessanti risultati in Toscana, e che deve il suo nome alla caratteristica forma del grappolo a piccolo pugno chiuso. Infine, 50 viti sono di Colorino del Val d’Arno, conosciuto anche come Abrostino o Abrusco. Il nome è dovuto alla sua buccia, intensamente dotata di colore rosso cupo. In autunno le foglie si colorano di un rosso fuoco e, con le striature rosso violacee in prossimità di qualche nodo, offrono un effetto scenico unico. Per l’impianto è stata scelta la forma ad alberello, la forma più antica di allevamento conosciuta, già praticata da Greci e Romani, ma anche la più qualitativa e costosa: consente di controllare molto bene lo sviluppo arboreo della pianta e tenerlo limitato a favore di una migliore crescita dei grappoli. Ogni vite è protetta e si appoggia ad un piccolo tutore di legno. Questa forma di allevamento richiede una lavorazione totalmente manuale, con costi di gestione importanti. I grappoli sono più accessibili e facili da tenere sotto controllo a pieno vantaggio della maturazione e della qualità delle uve. Per l’impianto si è scelta la forma cosiddetta a “quinconce”. Ogni alberello si trova sui vertici di un quadrato che ha un’altra vite al centro, come la faccia di un dado con il numero 5. L’aspetto visivo sarà scenicamente spettacolare: i filari potranno essere percorsi in lungo, in largo e in diagonale a piedi o con macchine di piccole dimensioni senza trovare ostacoli. Sarà così ottimizzata l’occupazione del suolo e la vite potrà sviluppare le sue radici nel migliore dei modi anche su questo terreno ripido. Il 14 marzo le barbatelle sono state interrate nelle buche lasciando emergere la parte superiore per circa 6 cm, quindi immediatamente annaffiate con almeno 10 litri di acqua per pianta. Le barbatelle daranno i primi frutti adatti alla vinificazione solo fra tre anni, quindi la prima vendemmia è prevista per il 2027 con la produzione della prima botte di vino dal vigore interamente michelangelesco. “Da quella botte si ricaveranno circa 700 bottiglie – conclude Maria - da vendere sul mercato internazionale tramite aste con finalità benefiche di sostegno sociale. Il fine della vigna non è comunque solo il vino, ma il rapporto che si crea tra uomo, terra e aria, un rapporto che ridimensiona la sterilità del cemento e dell’asfalto con la ricerca di un rispetto reciproco”.