Io lo so di che è morto Alain Delon, e so che cosa lo ha originato e so chi devo ringraziare per tutto questo

Il linfoma indolente che ha condannato il divo francese è lo stesso mio: funziona in modo da avvelenare il sangue, le cellule, gli organi ma, prima ancora, prima di tutto, la voglia e la forza di vivere. Le sue parole piene di depressione parlano chiaro, ed io le riconosco.

Io non lo so se Delon sia morto di turbocancro o per un linfoma indolente, come il mio, che sta lì per anni e poi si scatena e magari qualcosa lo scatena, non lo so se si fosse vaccinato e se patisse reazioni avverse, so però che quando ho sentito la sua disperazione senza fondo la ho subito ricollegata al linfoma, al nostro linfoma. Facciamo a capirci: depressi si nasce, la vita scava, l’età accresce la consapevolezza del nulla. Ma un linfoma come questo, che avvelena in sangue, che invade il midollo osseo, la prima cosa che fa è attaccare la mente. Quando me l’hanno scoperto, i medici erano esterrefatti: ma come facevi a convivere con dolori sicuramente lancinanti, con quella stanchezza patologica, con l’estenuazione insana di chi non trova sollievo? E i dolori c’erano e quella debolezza di pianta c’era, ma non mi importava più. Non avevo più motivi per vivere e per morire, proprio come Delon: “Ho vissuto tutto, ho provato tutto, niente resta, niente è importante”. Forse per reazione, anche lui trasferiva i suoi rimorsi e il suo dolore sugli animali, queste creature innocenti che non chiedono e non sanno ma tutto capiscono e ricambiano con amore incompromesso: loro mi hanno medicato quando non sapevo ancora di essere malato, loro mi hanno curato quando lottavo per non cedere. Il linfoma mangia la voglia di vivere. Prima di tutto quella, poi il resto viene da sé. Ti abitui a non esistere, ti lasci travolgere, ti dedichi alle piccole ignobili tragiche incombenze di ogni giorno, ma tu non ci sei più e non ti importa di esserci. Non ti vuoi bene, non pensi a curarti: sai che stai guasto, ma è come se te lo meritassi, per cosa non lo sai, come se dovessi soffrire per contratto divino. Il linfoma indolente, che cova per anni, ti mangia le cellule una ad una dopo averti mangiato la voglia di svegliarti al mattino. E più stai male e più ti abitui e non cerchi di uscirne. Io sono stato obbligato da una caduta accidentale, proprio un anno fa, uno di quegli episodi che fanno commentare a chi li ascolta: beh, Qualcuno ti ha voluto bene, se no non stavi qua. Al che io rispondo: se magari quel Qualcuno trovava un modo un po’ meno cruento…

Perché io cadendo da una moto ferma (altro effetto del linfoma: impercettibilmente rovina l’equilibrio, pregiudica la coordinazione), mi sono annientato spalla, cuffia dell’omero, clavicola, mi sono strappato e lacerato i tendini, i muscoli, inguine, gamba, tutta la parte destra dai capelli alle dita dei piedi paralizzata per settimane, una riabilitazione disperata, un trascinarmi penoso mentre gli altri distoglievano lo sguardo. E, di quinta, il linfoma indolente: così l’ho scoperto, e i medici incazzati: ancora un mese e non potevi più infilarti i calzoni senza sbriciolarti le ossa, ma che cazzo ti credevi? Niente mi credevo, ero arrivato al quarto stadio, l’ultimo, e ci convivevo e non mi importava. E che ero malato lo sapevo, c’è una trasmissione, su Byoblu, del marzo precedente dove io dico al dottor Stramezzi, poi diventato mio amico: “Tanto lo so che ho un cancro, lo so perché me lo sento dentro e so che sono stati i vaccini”.

Anche per Delon, il divo, è stato così. Il resto, la vita tragica, dissoluta, esagerata, è solo sfondo, ancora una volta, è scenario, ma nessuno si lascia andare per troppa vita. Era il linfoma che la succhiava, da dentro e per quel linfoma io devo ringraziare lo Stato italiano in tutte le sue “facce grandguignolesche del potere”, nessuna esclusa, che me lo ha proposto come una mela, mi ha lusingato, ingannato, mentito, e infine mi ha obbligato. Anche per Delon, il mito, è andata così, ne sono certo. Per lui, per milioni di qualunque. Oggi l’ultima biopsia ha detto che sono pulito, remissione completa, fino a quando non so: si apre una vita di controlli, il prossimo la vigilia di Natale: non ho più le vene, sono tarlate da centinaia di aghi. E se pure i linfonodi sono rientrati, se pure il sangue non è più fango, io resto malato. Ancora svengo, la sera, se ceno con gli amici, che si spaventano. Ancora le mie forze sono contingentate. Ancora debbo dosare le energie ed è umiliante, arriva quella botta e ritorni invalido, bisognoso di tutto. Mia moglie mi prende per mano e lentamente, un passetto spastico dopo l’altro, mi conduce a casa. Duecento metri durano mezz’ora. Io spaventavo chiunque per la mia energia nervosa, isterica, ero un rompicoglioni inesausto di rabbia, di forza, gli stessi medici mi hanno trattato come un caso clinico, non se ne son fatti una ragione. Io ancora in aprile, dopo sei ore di chemio, sono uscito e ho preso per il collo due balordi che giravano con la macchina in un vialetto pedonale riservato ai bambini. Adesso sono sempre come rotto. Mi sento scricchiolare, il vecchio anzitempo che non sono mai stato. Per me l’anagrafe era teorica, sono sempre stato un organismo senza età, alieno alle leggi naturali. Adesso i miei occhi sono fissi, lo sguardo è pieno di fantasmi e non riesco ad abituarmi all’idea di non essere più malato. Lo sarò per sempre, poche storie, non ci credo che fra sei mesi o un anno tornerò quello di prima. La mia mente non è più quella di prima ed è stato difficile proprio perché io ero di quelli dalla inesausta vitalità. Non ho mai considerato di avere 59 anni fino a che non mi hanno detto che ero molto malato. Adesso per me 60 sono come 120. è subentrato il languore della rassegnazione. Io lo so cosa provava il divo dei divi, Alain Delon che dalla vita aveva avuto tutto. So che non è morto di morte più o meno naturale all’alba dei suoi 90, so che qualcosa lo aveva divorato dentro, con pazienza indolente, e anche se non me lo diranno mai so anche cosa e scatenato da che cosa. Sono il sano più ammalato che c’è. La mia vita adesso, la vita che resta, la dedico a chi ci sta dentro, perché solo chi ci è passato sa e può tamponare lo sbando di chi si affaccia sulla vertigine del baratro. Due buchi e tutto è cambiato, tutto si è chiuso, andato, sparito per sempre. Grazie, presidente Mattarella, grazie cari Conte, Draghi, Speranza, grazie ai partiti tutti, alla politica al completo, ai virologi, ai colleghi giornalisti anche se io, come diceva Enzo Tortora, non ho colleghi, grazie a quelli che mi hanno augurato di morire siccome non mi vaccinavo, poi siccome mi sono vaccinato, infine siccome, da vaccinato, denunciavo il male fatto dai vaccini, ed ero e resto l’unico in una platea di divi, di vip, di personaggi pubblici felloni, pieni di paura e di viltà. Grazie a chi ci ha imposto lo stato di polizia, il regime sanitario che, come debitamente ammesso con tre anni di ritardo da quel carrozzone lottizzato che risponde al nome di Aifa, non serviva, che ammalava oltre i vaccini. Grazie davvero, grazie a tutti, spero di poter ricambiare, spero che il destino vi porti dove io e il megadivo Delon ci siamo arresi.